Quella scuola di Roma che…
Nessuno parla più della scuola di Roma e di come ha descritto la composizione socio-economica della propria utenza; e non è detto sia un male visto che la polemica è stata per lo più strumentale, un po’ da parte di tutti. Scusate se ci torno, quindi, ma credo possa essere utile provare ad allargare lo sguardo.
A caldo le reazioni sono state di due tipi. La prima è stata l’indignazione, per lo più da parte di chi guarda alla scuola da fuori. Indignazione e sorpresa che servono solo a non dover fare mai i conti con un dato incontrovertibile quanto drammatico: la scuola italiana è una scuola ancora profondamente di classe. Ce lo dicono tutti i dati, ce lo dicono le evidenze sulle percentuali di ripetenze ad esempio tra licei e istituti professionali; il principale fallimento della scuola è nella attenuazione delle diseguaglianze. Ogni volta che qualche fatto di cronaca o, più seriamente, le rilevazioni nazionali o internazionali ce lo ricordano i commentatori cascano dal pero, ma sarà ora di farci i conti seriamente perché è la vera emergenza del nostro paese.
La scuola delle disuguaglianze
La seconda reazione, anch’essa con una certa dose di strumentalità, è stata quella della chiusura. Gli avversari di ogni forma di rendicontazione si sono scatenati per provare a mettere in discussione la trasparenza tanto faticosamente conquistata. Per loro il problema non è in quanto scritto in quella presentazione (ci sono alcuni passaggi che onestamente gridano vendetta e portano a domandarsi cosa pensasse l’estensore mentre scriveva frasi tipo “colf, badanti, autisti e simili”). Per loro il problema non è nemmeno chiedersi se quel tipo di distribuzione dell’utenza possa rispondere a criteri diversi, magari attraverso interventi normativi che limitino la segregazione sociale. Personalmente ad esempio ho proposto che l’iscrizione – anche nei comprensivi, come nelle superiori – possa avvenire all’istituto nel suo complesso e non al singolo plesso.
Per questi nostalgici di un tempo in cui la scuola si lavava i panni sporchi in famiglia, il problema è nella pubblicità del dato, confondendo la rendicontazione con il volersi mettere in vetrina, la responsabilità con la pubblicità. Come se il fatto di non doverla descrivere, cancellasse la realtà. Come se, cosa ancor più grave, a pagare la conseguenza di questa eventuale censura non fossero una volta di più le fasce deboli, dato che i ceti medio alti ricorrerebbero ai cari vecchi “canali informali” per decidere dove iscrivere i propri figli. E che quei canali informali vengono esplorati ce lo conferma indirettamente l’altra vicenda assurta recentemente agli onori della cronaca (anche se ancor più fugacemente di quella romana) e denunciata dal Sottosegretario De Cristofaro: Sant’Antimo (NA), i genitori “ricchi” avrebbero chiesto al Dirigente di fare le classi per censo. Effetto vetrina anche in quel caso?
Come e cosa comunicano le scuole?
Archiviata, spero, la parte strumentale della polemica sulla rendicontazione cosa ci racconta quel fatto? Prendiamo il punto sul quale tutti concordano: si è usato un lessico quanto meno infelice; in particolare quel “e simili”, che denota superficialità e temo anche una dose di razzismo latente. Chiunque si sia occupato di queste cose sa che non è quello il modo di procedere. Ma da cosa dipende l’uscita infelice? Incapacità? Mancata formazione? Certamente chi ha scritto quella pagina del sito è un essere umano ed errare è umano, ma cercare il capro espiatorio non credo sia utile. Certamente la formazione specifica è importante, come lo è la struttura dentro la quale le scuole devono muoversi nel compilare il RAV e altri strumenti con analoghe finalità. Spero e credo che il Ministero metterà al più presto in atto azioni specifiche per migliorare questa pratica.
L’autonomia richiede nuove responsabilità professionali
Ma c’è anche, soprattutto, dell’altro. Innanzi tutto è l’ennesima prova dell’importanza di formalizzare il cosiddetto middle management (uso la formula di rito, chiamatelo come vi pare) in ogni scuola. Nella scuola vengono svolte molte funzioni fondamentali e diverse dall’insegnamento e quelle che attengono alla analisi del contesto, l’autovalutazione e il miglioramento sono certamente tra queste. Queste attività non possono essere lasciate alla volontarietà dei singoli, ma devono essere inserite in un percorso codificato e trasparente di valorizzazione professionale del personale docente e non docente. Questo implica selezione, formazione, aggiornamento e valorizzazione economica e si inserisce nel più vasto tema della carriera (o meglio, delle carriere, al plurale).
Un secondo tema che queste vicende evidenziano è molto più profondo e doloroso per chi ha creduto e crede nell’autonomia delle scuole. Siamo infatti nel campo del tema più generale di come la scuola recepisce le innovazioni. Che purtroppo, salvo felici eccezioni, superato l’entusiasmo iniziale post riforma Berlinguer, è sempre più un modo di recepire il cambiamento orientato al mero adempimento burocratico. Si vuole un altro esempio su un argomento completamente diverso? La valutazione degli studenti, ad esempio con il ritorno sempre più diffuso alla media aritmetica. Mutuando il termine dalla sanità, dove si parla di “medicina difensiva”, potremmo dire che stiamo assistendo al ricorso sempre più massiccio alla “valutazione difensiva”.
Il “peso” delle procedure amministrative
L’autonomia scolastica oggi si trova tra il martello degli apparati ministeriali che (vuoi per il retaggio centralista, vuoi per il timore del vaglio della giustizia amministrativa) hanno proceduralizzato il rapporto centro-periferia, e l’incudine del rifiuto dell’autonomia, chi per pregiudizio ideologico, chi preoccupato per le responsabilità che la accompagnano. Le scuole, anche le più attente all’innovazione, sono in sofferenza per le incombenze amministrative che aumentano sempre più. Il paradosso dell’autonomia è che tale innovazione, che avrebbe dovuto dare maggiore libertà alle scuole, si è trasformata in un aggravio non sempre sostenibile di adempimenti burocratici, che in alcuni casi limitano la capacità di manovra e sempre più spesso assorbono troppo tempo e risorse. La nostalgia per il Ministero delle Circolari, delle interpretazioni, degli indirizzi fintamente rispettosi della autonomia delle scuole è già oggi radicata in una minoranza, che è però sempre più egemone: se non si interviene velocemente per sburocratizzare rischia di diventare maggioritaria.
Segnali d’allarme per l’autonomia
I fatti di Roma e Napoli stanno pienamente in questo solco e ci confermano che pochi dei protagonisti (scuole e famiglie in questo ugualmente disorientate) sanno agire nel contesto di una scuola autenticamente autonoma. Ma non è colpa del destino cinico e baro: è colpa di come la politica ha ideologizzato ogni cambio di maggioranza, di come l’Amministrazione ha interpretato l’autonomia delle scuole e di come la scuola stessa si è abituata a fagocitare tutto, per difendersi da quelle che considera (a volte nel giusto, a volte sbagliando) sempre e solo delle ingerenze esterne.
Un altro segnale d’allarme per l’autonomia scolastica, l’ennesimo; se qualcuno volesse raccoglierlo non sarebbe male. L’alternativa è quella di aspettare il prossimo. Fino a quando non ce ne saranno più: il paziente sarà definitivamente morto.