Perché si parla di divari in istruzione
Una delle criticità che da sempre caratterizza il nostro modello sociale ed economico è la profonda differenza che contraddistingue le aree geografiche del Paese. Ad un Nord e ad un Centro Italia che appaiono capaci di esprimere realtà produttive spesso all’avanguardia e tessuti sociali in grado di sostenere la crescita culturale dei cittadini, sembra fare da contraltare un Sud incapace di reagire al divario economico che storicamente accompagna le due facce del Paese. Ed è così che dalla questione meridionale si è passati a parlare e discutere di coesione sociale e di obiettivo convergenza, cambiando di fatto il nome, ma non la sostanza, di un problema che ha cominciato ad essere percepito come insuperabile.
E la distanza non ha fatto sconti, si è radicata e si è manifestata, con prepotenza e chiarezza, nella scuola, dove i differenti livelli di apprendimento registrati da alunni e studenti sono diventati la variabile più preoccupante della cosiddetta povertà educativa[1].
Quando la scuola è lasciata sola
Assistiamo così, da anni, al rito annuale della presentazione del Rapporto Nazionale curato dall’INVALSI sui livelli di competenza raggiunti dai nostri studenti nelle prove standardizzate nazionali che evidenzia quanto quel divario stia diventando strutturale. E non possiamo certo risolverlo smettendo di analizzarlo, come se le prove INVALSI fossero la causa delle due velocità della scuola italiana, colpevoli di rendere troppo evidente un divario che, bisogna onestamente dirlo, esisterebbe lo stesso, anche se non avessimo imparato a riconoscerlo e definirlo. Non si tratta, infatti, di individuare i più bravi rimarcando le differenze con gli altri, quanto di comprendere le cause di quella distanza al fine di trovare possibili soluzioni, e di trovarle insieme.
Bisogna anche dire che da tempo vengono messi in campo interventi ed iniziative per accompagnare le regioni del Sud Italia, puntando in primo luogo su una serie di investimenti ad hoc che possano sostenerne la crescita economica ed educativa. La scuola, ad esempio, ha potuto usufruire di ingenti finanziamenti a valere, in primo luogo, sui Fondi strutturali assegnati allo Stato e alle Regioni dall’Unione Europea (PON e POR), grazie ai quali sono state realizzate iniziative meritevoli di attenzione che hanno consentito non solo di ampliare il tempo scuola dei ragazzi, ma anche di qualificare e differenziare l’offerta formativa, con lo scopo di garantire a ciascuno uno spazio formativo adeguato alle esigenze del contesto. Eppure oggi, che siamo quasi sul finire del terzo sessennio di programmazione, non si registrano i risultati sperati, con un conseguente senso disarmante di frustrazione.
Si sono, allora, cercate le cause di questo insuccesso. Qualcuno – mesi fa – ha addirittura ingenerosamente avuto il pretesto per parlare di un differente livello di professionalità del personale impegnato nelle scuole delle due Italie. Niente di più falso. Poi si è finalmente iniziato a considerare che la scuola non può farcela da sola, anche se riceve fondi per riuscirci, ma non basta.
L’idea di un Piano per contrastare i divari in istruzione
Proprio partendo da quanto fino a qui analizzato, il Piano di intervento per la riduzione dei divari territoriali in istruzione che la Viceministra all’Istruzione Anna Ascani, insieme a Francesco Profumo, Presidente ACRI, ed a Roberto Ricci, Dirigente di ricerca INVALSI, ha presentato il 21 gennaio scorso a Roma sembra finalmente aprire la strada ad una diversa assunzione di responsabilità davanti al divario tra i territori, poiché suggerisce un approccio strutturale e sistemico della questione[2]. Il Piano è promosso dal Ministero in accordo con l’impresa sociale Con i Bambini, ente gestore del Fondo per il Contrasto della Povertà Educativa Minorile, ed intende coinvolgere su base paritetica il Governo, le Fondazioni di origine bancaria, il Terzo Settore, ma soprattutto sarà realizzato in stretta collaborazione con INVALSI, INDIRE e con le Regioni e gli Uffici Scolastici di Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia a cui il Piano è rivolto.
Struttura e obiettivi del Piano
In sintesi il Piano, partendo dai risultati delle prove INVALSI rilevati nelle classi terze delle scuole secondarie di primo grado negli anni scolastici 2017-18 e 2018-19, mira innanzitutto ad individuare le scuole in difficoltà, ossia quelle in cui, per entrambi gli anni scolastici considerati, una percentuale compresa tra il 30% e il 45% degli allievi di grado 8 raggiunge risultati al di sotto del livello di accettabilità, corrispondente ai traguardi delle Indicazioni nazionali del primo ciclo di istruzione (livello 1 e 2 per Italiano e per Matematica, pre-A1 per Inglese-lettura e Inglese-ascolto). L’analisi prende anche in considerazione ulteriori indicatori, tra cui il livello di autovalutazione che la scuola si assegna attraverso il RAV, i risultati scolastici e le assenze degli studenti, l’entità dei finanziamenti PON e la quantità e tipologia di progetti, le caratteristiche principali della scuola dal punto di vista strutturale (spazi e infrastrutture).
Di seguito la situazione rilevata per ciascuna delle cinque regioni a cui il Piano è rivolto.
Tab. 1 – Istituzioni scolastiche del primo ciclo coinvolte nel progetto.
(1) Le scuole non target sono quelle che fanno registrare risultati migliori di quelli indicati per individuare le scuole in difficoltà.
Si prevede di avviare il Piano destinando alle scuole in difficoltà individuate – attraverso questo modello di analisi – un Repertorio di interventi, a cui le scuole potranno rifarsi autonomamente, con l’obiettivo, si legge nel Piano, di coniugare al meglio le misure da realizzare in relazione al contesto e alle risorse professionali, strutturali ed economiche. Gli interventi proposti, quindi, si avvantaggeranno dell’apporto di tutti gli attori coinvolti, ma soprattutto si intende realizzare la messa a sistema delle buone pratiche già in atto. Attraverso lo stesso modello di analisi, infatti, a ciascuna scuola in difficoltà viene associata un’altra scuola uguale o simile per caratteristiche socio-economico culturali e di composizione, ma che è riuscita a mettere in atto strategie e interventi grazie ai quali ha raggiunto risultati migliori. In questo modo le strategie che hanno dimostrato di essere efficaci potranno essere condivise, in modo da diventare patrimonio comune e strumento di crescita. Un Piano, quindi, assolutamente orizzontale, non calato dall’alto o eterodiretto, ma che punta ad una programmazione davvero partecipata tra la scuola, l’Amministrazione e le diverse organizzazioni ed istituzioni coinvolte.
Gli obiettivi per il futuro
La prima fase del Piano prevede, dunque, di analizzare i dati e gli interventi che già vengono realizzati e che, a dispetto delle situazioni difficili di contesto eventualmente rilevate, consentono comunque alle scuole di raggiungere risultati soddisfacenti. Partendo da questa analisi, si prevede di coordinare e diffondere i progetti vincenti già in corso e di individuarne altri, insieme ai diversi soggetti coinvolti, capaci di influire su quelle variabili che dall’analisi appaiono determinanti nella riduzione dei divari in istruzione.
Gli obiettivi strategici che il Piano indica riguardano il miglioramento delle competenze chiave di cittadinanza, degli apprendimenti di base, la riduzione della varianza dei risultati in modo da garantire a ciascuno pari opportunità educative ed il miglioramento del valore aggiunto di ciascuna scuola[3].
Quello che dovrà guidare nell’individuazione delle azioni e che sarà determinante per le scelte delle scuole e dei territori è, dunque, la stima d’impatto delle politiche d’intervento sul valore medio regionale in ciascuna delle discipline oggetto di osservazione, poiché l’obiettivo complessivo è migliorare il posizionamento degli studenti delle singole scuole coinvolte in modo da migliorare complessivamente la media regionale e ridurre il divario tra le aree geografiche del Paese. Per una scuola che, se non riesce ad avere un’unica velocità, almeno inizi col non lasciare nessuno ai box.
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[1] Secondo Save the children la “povertà educativa” agisce sulla capacità di ciascun ragazzo di coltivare le proprie inclinazioni e il proprio talento e può essere determinata dalla “povertà economica” che, in un circolo vizioso, a sua volta è determinata dall’impossibilità di accedere alla formazione per via delle difficili situazioni economiche degli individui.
[2] Per scaricare la documentazione sul Piano per la riduzione dei divari territoriali: https://snv.pubblica.istruzione.it/snv-portale-web/ oppure https://www.invalsi.it/invalsi/areastampa.php?page=index
[3] Secondo l’INVALSI il valore aggiunto è il contributo specifico che una scuola dà all’apprendimento dei suoi alunni, al netto del condizionamento esercitato su di esso dai fattori esterni al suo operato. Si calcola attraverso la differenza tra i risultati effettivamente raggiunti ed i risultati attesi in considerazione di alcuni fattori esogeni (preparazione precedente degli studenti e contesto sociale sia individuale sia generale).