La scuola italiana nell’era della competitività
La nostra cultura è stata imbevuta dal concetto di competitività in ogni sua sfaccettatura; ogni adulto lo respira ovunque, sul lavoro, sui giornali, sulle riviste del benessere, poi lo passa ai figli. Che cosa è tracimato, di tutto questo, nella percezione comune della scuola? E, dopo questo bagno di agonismo di mercato, cosa è diventata la scuola italiana? È ancora aderente al dettato costituzionale o è divenuta altro, un luogo ostile dove vige il principio “beati i primi”? Un luogo dove la pietà umana è sospesa, nel consenso generalizzato, e dove, per poterne ricevere in deroga, è necessario essere dichiarati “malati”? Ciò che abbiamo chiamato medicalizzazione è invece tutt’altro: il salvacondotto per vedersi restituita una pietà altrimenti sospesa, al costo però di vedersi affissa sulla giacca una qualche etichetta diagnostica. Ci siamo progressivamente abituati all’idea che sia normalmente possibile perdere alunni durante il percorso?
DSA: le nuove segnalazioni dopo i 14 anni
Ci sono segnali, indubbiamente anomali, che ci giungono dal mondo scolastico. Uno di questi è l’ultimo rapporto biennale sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dislessia, disortografia, discalculia) in Emilia-Romagna (luglio 2019), che registra nella scuola superiore un incremento drammatico di nuove segnalazioni a partire dai 14 anni. Non è sfuggito ai più il paradosso: come è possibile che “ci accorgiamo” che uno studente è dislessico dopo tanto tempo che siede sui banchi? Molti commentatori hanno avuto buone ragioni per stigmatizzare il fenomeno come “medicalizzazione”, ovvero la trasformazione in patologia di problemi di altra natura, ma se si alza lo sguardo verso lo scenario globale che contiene il fenomeno incrociamo altre due grandi domande: come è possibile che otto, dieci anni di scuola non abbiano appianato e compensato le differenze e gli svantaggi? E poi: che scuola ci racconta questo ricorso quasi di massa alla diagnosi di dislessia alle superiori? (Ci sono istituti con il 48% di studenti con DSA!)
“Epidemia” di dislessia? Non scherziamo…
È doveroso spendere qualche parola sui test utilizzati per la diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento, per comprendere le argomentazioni successive. Nella gran parte delle famiglie e purtroppo talvolta anche tra i docenti si riscontra una convinzione ingenua sulla natura di questi test, quasi fossero rivelatori di una verità nascosta che è lì pronta per essere “scoperta”, come se si trattasse di scoprire tardivamente di essere celiaci. Questo modello medico non è però applicabile qui: i test per la diagnosi DSA si limitano a mettere alla prova il soggetto su compiti di lettura, scrittura e calcolo, misurandone velocità e correttezza; sono quindi prove e misure solo statisticamente rigorose. Per questo motivo un test effettuato a 15 anni può rivelare soltanto che quel soggetto ha delle carenze in questa o quella area della lettura-scrittura, ma se ciò accade in prima liceo o oltre, chi ci dice che le carenze non siano causate da chissà quanti fattori accumulatisi nelle precedenti esperienze scolastiche e non solo?
Immaginiamo che uno zelante medico si metta a fare analisi a tappeto su popolazioni ad alto tasso di malnutrizione o senza accesso all’acqua potabile: egli troverebbe probabilmente una infinità di malattie di ogni genere, ma sarebbe malafede parlare di epidemie, fingendo di non vedere lo scenario complessivo. Ecco perché non dobbiamo chiederci se non vi sia una epidemia di dislessia negli adolescenti, ma semmai: perché e in che modo fallisce la scuola dell’obbligo nella sua missione di creare un terreno culturale di base comune a tutti? O, diversamente, perché, una volta giunti alle superiori, troppi studenti si trovano a scontare tante difficoltà, che finiscono poi con la ricerca di una diagnosi ancorché tardiva?
Sono domande, queste, che non hanno risposte semplici, e non possono essere limitate all’ambito scolastico: come vivono queste generazioni, e come crescono a casa, a scuola, nello sport, ovunque? Quali fattori stanno limitando le capacità scolastiche di base in troppi alunni? La ricerca delle ragioni del fenomeno dovrebbe fornire uno sguardo insieme critico e benevolo su come migliorare, sia pur con le sempre più povere risorse a disposizione, l’impegno della scuola italiana nel fornire a tutti adeguate capacità linguistiche e di ragionamento.
Una psicologia critica dello sviluppo
Molti anni fa W. Battacchi (Per una psicologia critica dello sviluppo, Psicologia Contemporanea n.197, 2006) ci avvertiva profeticamente di trasformazioni nella normalità statistica degli individui, che si stava spostando in direzione di un feroce narcisismo e di una “normale indifferenza” verso i deboli e la sofferenza. Oggi altri spostamenti sono in atto, e riguardano crescenti difficoltà in diverse aree:
- sviluppo del linguaggio e del lessico,
- capacità di orientare e sostenere l’attenzione nonché di ordinare nel tempo e in modo logico una sequenza di fatti,
- carenze nell’insieme delle funzioni della memoria a breve termine,
- nonché nella autoregolazione degli impulsi e delle emozioni.
Molte ricerche hanno puntato il dito sul modo prevalente in cui i bambini oggi vengono accuditi durante i 6 anni che precedono l’ingresso alla scuola primaria, anche se non dovremmo trascurare altre vie, come la presenza nell’ambiente di inquinanti in grado di interferire con il neurosviluppo. Resta comunque vero che si fa sempre più breve il tempo che il bambino trascorre in relazioni singole con un adulto, sempre di più quello trascorso in comunità più o meno grandi di coetanei gestite da un solo adulto per volta, e sempre di più il tempo solitario davanti a dispositivi come smartphone e tablet che abituano il bambino a una modalità di interazione prevalentemente non verbale e veicolata da immagini rapide.
Non dovremmo stupirci che stia crescendo il numero di bambini che entra alla scuola elementare già con un gap delle capacità cognitive e emotive, un gap che li limiterà poi in quasi ogni ambito del percorso scolastico. Bambini sovrastimolati, un po’ disorganizzati, fisiologicamente ansiosi, poco capaci di legami e di contatti con l’altro da sé. Credo che la scuola non possa più fingere che si tratti di “incidenti”: si tratta della (nuova) normalità.
Perché tante diagnosi tardive
Qual è la funzione concreta svolta dalle diagnosi tardive, e qual è il loro significato percepito in coloro che vi fanno ricorso? Prima di tutto una diagnosi in adolescenza avanzata acquista un valore compensatorio e rassicurante rispetto alle difficoltà pregresse, che permette di dire “Ah, ecco perché faceva tanta fatica a scuola!”. Lo scarso rendimento ha adesso una spiegazione compatibile con la possibilità di primeggiare altrove, senza intaccare il mito di un tipo umano ideale, compiutamente autorealizzato e sorretto da una granitica autostima e un incrollabile ottimismo, che in filigrana alimenta tanta (pseudo?)-pedagogia improntata all’autoefficacia, all’autostima e all’auto-motivazione. Basta una semplice ricerca sul web per vedere la mole di pubblicazioni che collegano, in modo più o meno surrettizio, la dislessia alla genialità.
Una diagnosi tardiva sembra nutrirsi anche di una aspettativa salvifica: la diagnosi conferirebbe al portatore di DSA uno statuto speciale che lo protegge nel suo cammino scolastico. Ma da che cosa lo protegge? Si potrebbe dire: dalla scuola stessa, per come viene vista da alunni e genitori. Qui parlo naturalmente delle loro aspettative e percezioni, non necessariamente della realtà obiettiva delle cose. Tuttavia esse raccontano uno snodo culturale importante nella nostra società. Vediamolo.
La sospensione della pietà
Che cosa è dunque, nella percezione comune, la scuola superiore? Questa ricerca di risarcimenti per le angherie passate, e di un casco protettivo per gli anni a venire, fa pensare a un luogo ostile dove chiunque abbia qualche fragilità debba essere protetto, un campo di gara dove chi ha certe carenze “merita” delle compensazioni e delle dispense per poter comunque competere e arrivare al traguardo.
Anziché fermarsi e domandarsi di quale competizione si tratti, e in che cosa consista il traguardo, ecco invece che si è creato un consenso trasversale tra docenti, famiglie (ma non sempre i figli) e alcune figure cliniche, per produrre quel pezzo di carta senza il quale il ragazzo “sarà trattato come gli altri”, una frase che assume un alone vagamente minaccioso. Qualche mese fa mi è stato girato un resoconto di assemblea di classe di una seconda Istituto Tecnico, aperta ai genitori, dove il solerte verbalizzatore cita letteralmente un docente: «Non avremo pietà per nessuno»; potrebbe essere una iperbole pronunciata da un docente imprudente, ma colpisce che tale affermazione venga accolta da una sorta di silenzio-assenso, in assenza di commenti o reazioni da parte degli astanti. Questo esempio, anche se naturalmente non rappresenta tutte le realtà, disegna a tinte forti una realtà ben percepibile in molti contesti della scuola superiore: essa è o dovrebbe essere un luogo dove la pietà umana è sospesa, nel consenso generalizzato, e dove, per poterne ricevere in deroga, è necessario essere dichiarati “malati”. Un mondo nuovo si spalanca davanti ai nostri occhi: ciò che abbiamo chiamato medicalizzazione è invece tutt’altro: il salvacondotto per vedersi restituita una pietà altrimenti sospesa, al costo però di vedersi affissa sulla giacca una qualche etichetta diagnostica. Come siamo arrivati fin qui?
Beati i primi: il culto della competizione
Da non meno di due decenni la nostra cultura è stata rimpinzata di concetti come competitività, eccellenza, agonismo; ogni adulto li respira ovunque, sul lavoro, sui giornali, sulle riviste del benessere, poi li passa ai figli. I genitori assumono come realtà tout court l’idea che i propri figli entreranno in un mondo ostile dove non ci sono opportunità per tutti ma solo per i primi, non importa primi in che cosa, purché primi. Autorevoli commentatori suggeriscono che i successi scolastici e le promozioni o non sono per tutti o non hanno valore: ci dev’essere una selezione darwiniana dove il meno adatto soccombe. L’importante non è partecipare ma vincere, e con qualunque mezzo.
Credo di immaginare le proteste di quanti, (giustamente!) si adoperano per una scuola inclusiva: fanno bene, ma spero concordino sul messaggio implicito nel mito dell’inclusività che suona più o meno come: “ci impegniamo per non perdere per strada nessun alunno e perché tutti arrivino alla meta”. Immaginate di salire su un aereo il cui comandante, dando il benvenuto ai passeggeri, dicesse “farò il possibile affinché ciascuno di voi arrivi a destinazione, e nessuno resti per strada”. Temo che causerebbe il panico, poiché sembra ritenere normalmente possibile che qualcuno si perda. Ebbene, confessiamocelo: la nostra scuola si è progressivamente abituata all’idea che sia normalmente possibile perdere alunni durante il percorso, e l’accorato appello per una scuola inclusiva non genera alcun panico.
Qualcuno vuole ancora stupirsi che le forze politiche cosiddette “suprematiste” intercettino in tutta Europa larghe fasce del voto giovanile? Come potrebbe essere altrimenti, visto il mondo che le generazioni precedenti hanno predisposto per i millennials? Non faranno prigionieri, e tratteranno gli altri nel modo in cui loro stessi sono stati allevati. Non deve stupire nemmeno che altri loro coetanei si chiudano nelle proprie stanze e non ne escano più, i cosiddetti Hikikomori, che sembrano ritenere il mondo là fuori troppo inospitale e difficile. Forse, a ben guardare, sono meno “malati” degli altri.