Si sta spegnendo la scintilla dell’apprendimento?
In queste settimane il quotidiano La Repubblica ha ospitato un dibattito attorno agli esiti di apprendimento in Italiano, Matematica e Inglese pubblicati dall’Invalsi. La discussione ha avuto come filo conduttore il “Nuovo alfabetismo” che caratterizzerebbe le nuove generazioni. Mi dedicherò qui soltanto all’intervento di Massimo Recalcati (La Repubblica del 24 luglio) che ha sviluppato un suo ragionamento attorno all’educazione alla lettura. L’intervento dello psicoanalista interessa perché costituisce emblema del modo in cui gli intellettuali del nostro Paese si accostano ai temi dell’istruzione.
In sintesi Recalcati parrebbe trarre spunto dalle prove Invalsi (per quanto egli esordisca con un interessante “Non erano necessari i risultati degli ultimi Invalsi per constatare lo stato di declino del livello di apprendimento dei nostri figli”) per constatare l’incapacità dei nostri giovani a “farsi allievi”, cioè a sobbarcarsi la fatica dell’apprendimento smarcandosi dalle seduzioni della connessione permanente. A questo dovrebbero sapere provvedere gli adulti consentendo l’accesso ad una lingua viva, profonda, frutto di un’educazione alla lettura che si traduce nella frequentazione del libro: “senza questa educazione ogni didattica risulterebbe semplicemente impossibile”.
Un nuovo paradigma per la valutazione?
Questa educazione, per Recalcati, fonda una vera buona scuola, il che comporterebbe “l’emancipazione da criteri di valutazione rigidamente quantitativi nei quali ricade fatalmente anche il paradigma degli Invalsi”. Affermazione forte, questa, spiegata col fatto che l’educazione alla lettura è educazione alla “singolarizzazione divergente del sapere”. Qui Recalcati prende le distanze dall’aziendalizzazione della scuola, con tutto il suo corredo di “lemmi economicistici” e difende il “carattere epico della parola”. Quest’ultimo snodo del suo ragionamento gli permette di fare l’elogio del “modello tradizionale della lectio ex-cathedra” perché “é solo la testimonianza dell’insegnante e della sua parola che può accendere o spegnare il desiderio di sapere negli allievi. Non c’è educazione alla lettura, non c’è, dunque, educazione in senso ampio, se non c’è la parola di un maestro.” Tutto questo sarebbe minacciato da quella che lui definisce “iper-cognitivizzazione attuale del sapere”. Cosa sia quest’ultima, allo stato delle mie conoscenze non è dato sapere.
Il carattere epico della parola del maestro
Dal punto di vista della coerenza tematica, si ha la sensazione che l’approdo finale all’elogio della cattedra sia trainante rispetto a tutto il ragionamento. Per rilanciare il modello della lezione ex cathedra a Recalcati non pare sufficiente l’educazione alla lettura del libro, che di per sé non postulerebbe la frontalità. Anzi, leggere insieme testi in classe può decentrare l’azione di insegnamento a favore di assetti discorsivi, ermeneutici, di lavoro cooperativo sul testo. L’autore pertanto deve approdare al “carattere epico della parola”. Ma di quale parola si tratta? La parola del testo o la parola dell’insegnante che spiega dalla cattedra?
Si sa che Recalcati ama essere ascoltato. Nel suo libro “L’ora di lezione” egli costruisce un’ipotesi di apprendimento tutta centrata sull’ascolto della parola dell’insegnante. Erotica dell’insegnamento. In più occasioni egli ha preso le distanze da quelli che definisce “pedagogisti di sinistra” perché avrebbero in qualche modo minacciato la bellezza di questo assetto. Lo stesso quotidiano che ospita il suo intervento mostra di intuire lo scopo ultimo dell’intervento titolando “Insegnanti non scendete dalla cattedra”.
Una scuola piegata alla tecnocrazia
Giustamente Recalcati ragiona di scuola per quel che gli permette il suo background professionale. E pertanto, sull’apprendimento, fa come tanti suoi colleghi: torna indietro nel tempo. Ma il suo discorso contiene anche elementi che permetterebbero di andare avanti, se si riuscisse a svilupparli in modo coerente ed incisivo. Il Nostro infatti prende le distanze da quel che chiama il “discorso del capitalista” e soprattutto ne vede pericolosamente la presenza nell’attuale sistema-scuola. I passaggi decisivi sono due e riguardano da un lato la questione dei criteri di valutazione “rigidamente quantitativi”, dall’altro tutto l’armamentario lessicale di carattere economicistico della scuola. I due passaggi in realtà pongono una sola questione.
Che rapporto c’è tra il cosiddetto “nuovo alfabetismo” che Invalsi segnalerebbe con i suoi test e la piega tecnocratica che ha preso la scuola negli ultimi anni, di cui lo stesso Invalsi è fattore cardine? Recalcati parla di “singolarizzazione divergente del sapere”. E come si concilia questo col principio di standardizzazione che sta alla base dei rilevamenti periodici ed è chiaramente funzionale ad un certo modello di istruzione?
Gli intellettuali e i discorsi sulla scuola
Davvero il ragionamento di Recalcati appare emblematico del disorientamento generale attorno ai temi della scuola. Gli intellettuali di destra o di sinistra deplorano tante cose insieme: la disaffezione allo studio dei ragazzi, la pervasività della cultura digitale, le politiche scolastiche degli ultimi venti o trenta o quarant’anni, la pedagogia progressista. La cultura accademica con tutta evidenza non ha strumenti di analisi che le permettano di distinguere i vari livelli del problema perché, con le dovute eccezioni, ha sempre intrattenuto un rapporto paternalistico col mondo della scuola, a volte senza riflettere adeguatamente sulle responsabilità che anche il mondo universitario, per la parte che gli compete, dovrebbe assumersi.
L’Invalsi fa quel che gli compete, secondo la normativa vigente. Rileva apprendimenti attraverso test standardizzati. Per la verità il tipo di prove somministrate rileverebbe piuttosto indizi di apprendimenti, e forse costruire attorno ad essi analisi molto ambiziose sulla cultura nazionale e sulla cultura dei nostri giovani in alcuni casi appare pretenzioso. Tra i tanti commentatori Recalcati forse è l’unico che riesce a vedere come le stesse prove Invalsi in fondo siano interne al sistema che egli critica, e questa non è una cattiva notizia, perché potrebbe consentire di tenere distinti i piani del discorso sulla scuola. Che va affrontato certamente in termini culturali, ma evitando di vagheggiare, per carenza immaginativa, modelli superati.
Manca un dibattito sulla “cultura dell’educazione”
Purtroppo quel che manca è un serio dibattito pluripartecipato sulla scuola, in cui la dimensione culturale non venga vissuta banalmente, ma assuma i tratti della “cultura dell’educazione”. Ai media fa molta gola il “nuovo analfabetismo” perché suscita nell’opinione pubblica sensibile al tema dell’ignoranza una santa indignazione. Ma il discorso sulla scuola non può essere demandato ai media ed alle élites intellettuali, pena il suo svuotarsi di contenuto pedagogico e quindi di reali possibilità evolutive. Le politiche scolastiche, infatti, procedono da molti anni come se nulla fosse, tagliando risorse, non riformando ciò che sarebbe da riformare, riformando in modo discutibile (vedi il nuovo colloquio dell’Esame di Stato del secondo ciclo), ma nel contempo estendendo i dispositivi tecnocratici tutti orientati neopositivisticamente alla misurazione e alla comparazione. Recalcati e i suoi colleghi umanisti questo lo vedono, ma non hanno le parole giuste per contribuire a correggerlo. Altri, tra le forze politiche, sindacali e associative (ma anche accademiche, perché no?), dovrebbero invece averle e soprattutto farle valere. Ad esempio sommergendo i media di contributi capaci di far capire il problema.
Battano un colpo.