Un popolo di non-lettori
Qualche giorno fa il presidente dell’Associazione Italiana Editori, Ricardo Franco Levi, in un’audizione alla Camera, ha presentato delle proposte per la promozione della lettura in Italia e per il superamento del grave ritardo che il nostro Paese registra in UE. Infatti i dati su quanto leggono gli italiani (60%) sono significativamente distanti rispetto ad altri Paesi europei (i lettori sono il 90% in Norvegia, l’86% nel Regno Unito, l’84% in Francia, il 62,2% in Spagna e il 68,7% in Germania). Insomma siamo un popolo che legge poco. Probabilmente questo disamore verso la lettura ha radici profonde: se l’ambiente familiare ha poca dimestichezza coi libri e con la lettura, il bambino sarà portato ad essere poco attratto dai libri stessi.
Il dato più allarmante emerso dall’audizione di Levi è che, per la prima volta da quando è iniziata la crisi del settore librario, le vendite di libri per bambini e ragazzi sono scese dell’1,2% (primo quadrimestre 2019). Si tenga presente che questo genere di consumo è quello che più ha sostenuto il mercato italiano del libro ed ha sempre registrato un lento, ma costante aumento. I libri per bambini e ragazzi non hanno conosciuto situazioni di crisi nel corso di questi anni, e per tale motivo il segno negativo del primo quadrimestre di quest’anno appare decisamente preoccupante, tanto da far dire a Levi che la lettura è una vera emergenza nazionale.
Il piacere e la gratuità del leggere
Per quanto concerne la scuola, c’è da chiedersi se il tempo che viene dedicato alla lettura durante l’esperienza scolastica dei giovani sia adeguato, e soprattutto se gli approcci alla lettura siano incisivi. Le eccessive “preoccupazioni scolasticistiche” di molti docenti rischiano di trasformare la lettura in un’esperienza legata pedissequamente ad un compito da svolgere (il riassunto di quanto letto, la scheda, l’interrogazione ecc.). Difficilmente la scuola cura la passione per la lettura, ossia l’allestimento di situazioni in cui si legge per il gusto di leggere, senza altre preoccupazioni prestazionali. Sembra faticare molto a farsi strada l’idea di lettura come spazio gratuito: uno spazio (anche temporale) dedicato a leggere quello che si vuole leggere, senza avere l’assillo che si stia perdendo tempo, perché non vi è una finalizzazione prestazionale. Tutto ciò presuppone ovviamente che i docenti in primo luogo leggano “gratuitamente” ai bambini ogni giorno, senza altra preoccupazione che quella di far gustare un’opera letteraria adeguata all’età degli allievi.
La correlazione con gli apprendimenti scolastici
Questi dati risultano ancor più allarmanti, se correlati ad altri fattori di natura scolastica. Ad esempio, secondo quanto rileva il Rapporto Sdg dell’Istat sui dati Invalsi, il 34,4% degli studenti di terza media “non raggiunge un livello sufficiente di competenza alfabetica”, ossia non è in grado di comprendere testi semplici ed è privo di molte competenze utili nella vita quotidiana.
Non diversa è la situazione nel mondo degli adulti. Da una ricerca realizzata per la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dall’Istituto Carlo Cattaneo, presentata lo scorso mese di gennaio, emerge che, a fronte del 98,6% di italiani alfabetizzati (almeno sul piano formale), il 30% di cittadini tra 25 e 65 anni presenta forti limitazioni nella comprensione, nella lettura e nel calcolo. A livello internazionale, peggio di noi fanno solo Turchia e Cile.
Le conseguenze di questo fenomeno, denominato “analfabetismo di ritorno”, sono decisamente allarmanti per una società che voglia definirsi democratica. Secondo quanto emerge dalla ricerca, a livello individuale la scarsa alfabetizzazione comporta esclusione sociale, mancanza di autonomia, insicurezza. A livello sociale si hanno scarsa partecipazione al processo democratico, criminalità, maggiore spesa per la salute. Sul piano economico ne derivano un livello di sviluppo limitato, scarsa tendenza all’innovazione, scarsa produttività. Insomma l’analfabetismo di ritorno ha dei costi non solo individuali, in termini di esclusione dalla vita sociale, ma anche sociali.
L’istruzione pubblica: la grande dimenticata
In una situazione così caratterizzata, è paradossale registrare che l’Italia spende meno degli altri Paesi UE nell’istruzione: nel 2015, ultimo dato disponibile, la spesa pubblica per l’istruzione in Italia è stata del 4,1% del Pil, contro il 4,5 della Germania, il 5,5 della Francia, il 5,7 dell’Inghilterra. Solo la Grecia e alcuni Paesi dell’Est spendono meno di noi.
Insomma il nostro è un Paese che non produce conoscenza, ed è forse uno dei pochi al mondo ad economia avanzata che non considera il sapere e la conoscenza come un valore aggiunto. E non sembra esservi consapevolezza di questo stato nella classe dirigente, anzi negli ultimi anni vi è stata quasi una sorta di sdoganamento dell’ignoranza: emblematico il caso di quella sottosegretaria che si vantava di non leggere un libro da tre anni.
Cultura civica, formazione e sviluppo economico
A livello più generale si può sottolineare che un popolo ignorante è funzionale al potere, perché più assoggettabile: l’ignorante è più facile preda di pregiudizi e stereotipi, ha scarso senso critico, presenta limitate capacità di discernimento, anche perché è meno informato. Viceversa la conoscenza sollecita le persone ad essere più autonome e ad agire in modo più consapevole e libero. Questo gap formativo è particolarmente problematico in una società democratica, che per definizione si fonda sull’apporto di tutti i cittadini per poter conseguire i suoi obiettivi sociali, economici e politici. Non va poi trascurato il fatto che l’Italia, povera di materie prime, fonda buona parte della sua economia proprio sulla capacità di trasformare materie prime provenienti dall’estero, e dunque impiegando competenze, innovazione, creatività, know-how, ossia tutti aspetti che richiedono investimenti nella formazione e nella cultura. È un vero peccato che non si colga questo elementare dato.