La complessità sulle soglie dell’aula
L’insegnante di scuola primaria del 2020 è un professionista dell’educazione che opera all’interno di un contesto scolastico e sociale molto più complesso rispetto al passato. Facciamo solo qualche esempio di tale complessità:
– l’emergere in classe della pluralità in tutte le sue forme porta i docenti a confrontarsi con bisogni diversificati, con disuguaglianze vecchie e nuove. Occorre trovare il modo di garantire a tutti e a ciascuno un apprendimento di qualità tenendo conto delle specificità e, nel contempo, favorire negli allievi la comprensione e l’apertura alle differenze per imparare a vivere meglio insieme. In particolare, la diversità delle lingue in classe porta in primo piano la necessità di integrare la dimensione linguistica nell’insegnamento dei contenuti disciplinari, per aiutare gli allievi ad acquisire le competenze in tutte le materie di studio;
– l’eccesso di immagini, suoni, informazioni di vario tipo, provenienti dai mass media, genera spesso nei bambini confusione, provoca breve durata nell’abilità di prestare attenzione e di concentrarsi, li abitua a modi di pensare più rapidi, alla percezione di messaggi brevi. Ciò comporta la necessità di aiutare i ragazzi a filtrare e riorganizzare l’enorme flusso di stimoli a cui sono esposti, perché imparino a osservare, pensare, rielaborare quanto appreso;
– il cambiamento dei modelli educativi familiari provoca spesso difficoltà di adeguamento degli allievi alle regole, il che rende più complessa la gestione della classe.
Maestro domani: una guida che accompagna l’allievo
L’insegnante di oggi deve riuscire a tener conto di tutto ciò quando progetta e realizza i diversi percorsi di insegnamento/apprendimento. Ma non solo: deve anche adeguarsi a quanto emerge dalle recenti ricerche in campo psico-pedagogico, che cancellano la vecchia figura del docente trasmettitore di saperi e lo trasformano in una guida che accompagna lo studente nella costruzione delle conoscenze, abilità, competenze. Ciò implica, da una parte, collocare gli allievi al centro del processo di insegnamento apprendimento e, dall’altra, avere ben presente l’idea di competenza come traguardo finale da far raggiungere.
Il padroneggiare la didattica di tutte le discipline sulla base di una solida preparazione psico-pedagogica, il saper comunicare e condurre la classe, si intrecciano con le competenze sociali necessarie per interagire e collaborare con colleghi, genitori, personale esterno che in varia misura collabora con la scuola; senza dimenticare, poi, che il docente deve saper riflettere sulla propria pratica e rivedere in continuazione il proprio rapporto con ciò che sa e sa fare, per un approfondimento continuo delle competenze che possiede. È evidente che tutto ciò comporta una elevata professionalizzazione.
Le prove di concorso: un blitz docimologico?
Queste brevi considerazioni ci portano ad affermare che oggi non si dovrebbe diventare insegnanti soltanto a seguito di un concorso. A nostro avviso, prima del concorso occorrerebbe un master post universitario di almeno due anni, come avviene in altri paesi.
Si dirà che il concorso ha un “programma” di studio molto ambizioso, ed è vero. Ma la prova concorsuale riesce ad accertare davvero il possesso delle competenze necessarie per il futuro insegnante?
La prova scritta è costituita da due quesiti aperti, più un terzo a risposta chiusa per la comprensione di un testo in lingua inglese, almeno al livello B2 del Quadro Europeo di Riferimento per le lingue. Sicuramente i futuri insegnanti hanno possibilità, in sede di prova scritta, di dimostrare le proprie competenze linguistiche di base (punteggiatura, ortografia, morfosintassi, proprietà lessicale), le capacità di sviluppare le argomentazioni in modo chiaro, logico e coerente, e di esprimere giudizi critici. Sul piano dei contenuti, invece, riteniamo che si possa focalizzare l’attenzione soltanto su micro-aspetti del vasto programma, in quanto in un tempo di tre ore c’è anche la prova di inglese. Riferendoci ai posti comuni, è illusorio pensare, ad esempio, che con i primi due quesiti si possa accertare se i candidati possiedano la padronanza delle “tematiche disciplinari, culturali e professionali” e “conoscenze e competenze didattico-metodologiche in relazione alle discipline oggetto di insegnamento”.
Ed è ancora più illusorio pensare che in 30 minuti di prova orale si possa valutare la “padronanza delle discipline” e la “capacità di progettazione didattica efficace, anche con riferimento alle TIC”. In questi 30 minuti, infatti, occorre accertare anche la capacità di saper insegnare l’inglese. Un tempo davvero insignificante per stabilire se il candidato possieda o meno i requisiti necessari a svolgere una professione così importante.
Le stranezze della prova orale
La prova orale consiste nella progettazione di un’attività didattica. La scelta di circa 15 minuti per l’orale (si suppone che gli altri 15 debbano essere destinati all’accertamento delle competenze in lingua inglese) evidenzia una tendenza “al ribasso” nella interlocuzione della commissione con il candidato. Non viene infatti richiesta l’illustrazione di un percorso completo, di un’unità di lavoro, di una sequenza didattica di un certo spessore; si parla invece di una semplice “attività”, che nel lessico pedagogico ormai accettato fa riferimento a qualcosa di veramente minimo e che mal si concilia con “l’illustrazione delle scelte contenutistiche, didattiche, metodologiche compiute” e con gli “esempi di utilizzo pratico delle TIC”, elementi, questi, di solito riferibili a un percorso coerente e completo, al cui interno ci sono varie attività.
Una contraddizione tra gli obiettivi “pretenziosi” presenti nei testi di legge e la realtà.
E che dire del concorso riservato?
Basta fare riferimento al concorso riservato ancora in corso, che ha lo stesso programma d’esame e le stesse modalità di svolgimento (per la prova orale) di quello appena decretato, per rendersi conto di questa incongruenza. In più l’esperienza del concorso riservato evidenzia che i commissari non hanno capito fino in fondo che cosa fosse l’”attività” da far presentare ai candidati.
La lettura di alcune tracce assegnate (reperibili sui vari gruppi Facebook) rivela comportamenti diversi da parte delle commissioni. Ecco degli esempi.
Alcune commissioni hanno indicato “tematiche” (così chiamate da loro) che vanno da un livello macro a uno micro: il testo narrativo fantasy; educazione stradale: percorsi sicuri in città; multipli e sottomultipli; la traslazione di figure su piano; la promozione, la conoscenza e l’apertura verso le altre culture; genere di immagine fotografica: pubblicità; il collage; disegnare figure con l’uso della LIM; impariamo a usare i pennelli e i colori a tempera.
Non è mancato il richiamo agli “argomenti” che ricordano i vecchi centri di interesse (Classe prima: L’inverno e il freddo), e che disorientano perché non si sa che cosa si deve fare.
E non è mancato neanche il richiamo all’Invalsi (alla luce dei Quadri di Riferimento dell’Invalsi analizzare le inferenze dirette e complesse in classe quinta; alla luce dei Quadri di riferimento dell’Invalsi analizzare il corretto utilizzo dei differenti registri linguistici). In questo caso che cosa vuol dire “analizzare”? È il candidato a dover fare l’analisi? E qual è il posto dell’attività da progettare?
Schizofrenia pedagogica
In molte tracce, poi, si parla di “lezione” e si fanno precisazioni (da notare anche gli acronimi) di cui non si capisce la funzionalità: Matematica: Leggere e scrivere i numeri in senso progressivo e regressivo. La lezione è rivolta ad una classe prima composta da 20 alunni di cui 1 alunno DVA (legge 104 art. 3, c. 3) e 1 alunno NAI di un istituto comprensivo con sede in quattro paesi con meno di 5000 abitanti, con tempo scuola a 27 ore.
Nelle tracce hanno fatto il loro ingresso anche termini nuovi: Compito di realtà: organizzare una giornata evento sui diritti delle persone e dei bambini.
Un compito di realtà, come ben sappiamo, è qualcosa di molto complesso, che ha bisogno di tempo per essere realizzato; se inserito come sinonimo di una semplice “attività” viene snaturato, si riduce soltanto a una etichetta di moda.
Ci auguriamo davvero che per il futuro concorso si trovino dei correttivi a questa sorta di “schizofrenia pedagogica”, che ha caratterizzato la prova orale del concorso riservato. Ne va del futuro della scuola primaria.