In un liceo del salernitano una targa sul pavimento ricorda il ragazzo del Mali annegato nel Mediterraneo con la pagella cucita nel vestito. In un liceo di Ravenna il preside non fa cancellare una scritta omofoba contro di lui, “perché sia pietra d’inciampo per l’intelligenza”.
Quel dettaglio che ci commuove
Per poter ricordare un incontro, una storia, una persona, abbiamo sempre bisogno di un dettaglio. Un dettaglio che in qualche modo ci colpisca, ci costringa all’attenzione e riporti al presente una memoria.
Dei tanti morti annegati nel tentativo di raggiungere le nostre coste dall’Africa, che ormai si contano a decine di migliaia, non c’è traccia se non nelle cronache del momento. Eppure a volte capita che la rivelazione di un particolare irrompa e spezzi la nostra quotidiana indifferenza.
È accaduto qualche settimana fa con l’uscita del libro Naufraghi senza volto, in cui Cristina Cattaneo, medico legale, racconta di avere trovato, cucita nelle vesti di un ragazzo del Mali di 14 anni, la sua pagella con i voti scritti in arabo e francese. Il rinvenimento era emotivamente e simbolicamente così conturbante che è stato colto e rilanciato da numerosi media e se ne parla nelle scuole.
Questa pagella, che il ragazzo ha sentito il bisogno di nascondere e conservare con cura nei suoi vestiti, portandola con sé nel lungo viaggio attraverso il deserto e le prigioni libiche, fino in fondo al mare che lo ha inghiottito, in qualche modo dà concretezza fisica al suo sogno di riscatto.
Noi non sapremo mai il nome di questo ragazzo, annegato il 18 aprile 2015 nel più spaventoso naufragio avvenuto nel Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale, quando perirono in una notte nel canale di Sicilia oltre mille esseri umani, ma la sua scelta di portare con sé un documento che attestasse la qualità del suo impegno, la sua volontà di studiare, migliorarsi e prepararsi a un futuro migliore, è arrivata fino a noi. Ecco che quel foglio, recuperato dal fondo del mare, ci offre la possibilità di non dimenticare, perché traccia concreta della volontà di un adolescente di cercare una vita migliore.
Inciampare per ricordare
Per ricordare milioni di vite spezzate dalla furia nazista, l’artista tedesco Gunter Demnig percorre le città d’Europa dal 1992, cementando a terra le sue pietre d’inciampo (Stolperstein) in modo che si depositi in forma indelebile, nel tessuto urbano delle città, una memoria visiva dei cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti.
Diffidando forse dei grandi monumenti che costellano le nostre città, di cui spesso si perde il senso, Gunter Demnig insegue l’idea, artistica e poetica, di affidare la memoria dei singoli innocenti uccisi nei campi di sterminio a delle piccole pietre d’inciampo ricoperte di ottone, leggermente sollevate dal piano del marciapiede, con su inciso il nome di chi abitava oltre quel portone e fu costretto a uscire da una casa dove non sarebbe mai più tornato. In 25 anni l’artista tedesco ha incastonato oltre 56.000 pietre d’inciampo nelle città di 18 nazioni europee.
Insegnanti, ragazzi e dirigente del Liceo Mangino di Pagani, in provincia di Salerno, hanno fatto loro il suggerimento dell’artista tedesco, incastonando nel pavimento dell’atrio della loro scuola una piccola targa in ottone che ricorda il ragazzo del Mali senza nome, la cui pagella è stata trovata insieme ai resti del suo corpo recuperato in fondo al mare.
La scelta coraggiosa di cementare quella targa a terra, come segno indelebile in grado di continuare a denunciare nel tempo l’assenza di un ragazzo che avrebbe potuto frequentare quella scuola, mi sembra particolarmente significativa oggi, che di immigrati si parla ogni giorno senza assumersi la fatica di studiare a fondo il fenomeno, raccontarne le storie e osservare con lungimiranza una questione di rilevanza planetaria, che muterà inevitabilmente la composizione del tessuto sociale delle nostre società.
Migrare nel Paese più vecchio del mondo
Sono il 9,4% gli alunni di origine straniera che frequentano le nostre scuole, e chi ha la pazienza di ragionare pacatamente di demografia e statistica, lontano da furie ideologiche interessate, sostiene che avremmo bisogno che fossero molti di più i ragazzi che vengono da altri continenti tra noi, perché portatori di una energia e di una volontà nel costruire e rendere migliore la loro esistenza, di cui ha necessità vitale il nostro Paese, che è ha la percentuale di anziani più alta del mondo, superata solo dal Giappone.
Se torniamo con la memoria al dopoguerra, scopriremo che negli anni del boom economico il nostro era un paese giovane, innervato da una straordinaria voglia di ricostruire, che si avvalse positivamente di un’ondata migratoria dal sud al nord Italia, che coinvolse in vent’anni 30 milioni di meridionali, sei volte tanto l’insieme degli immigrati giunti in Italia nell’ultimo quarto di secolo. A quell’ondata senza precedenti la nostra società, pur tra mille contraddizioni, seppe infine far fronte positivamente.
Potremmo allora cominciare a guardare con altri occhi a chi arriva e non arriva, ragionando sulle migrazioni odierne come fenomeno necessario alla costruzione di un futuro in cui si ritrovi tutti l’energia e la voglia di progettare un futuro aperto, in un paese in cui a fronte di 100 giovani ci sono 168 anziani e il calo complessivo delle nascite e della popolazione non accenna e diminuire.
Ragazzi che partono… ragazzi che non arrivano
Il problema è che migliaia di ragazzi che partono dalle loro case, sottoponendo le loro famiglie a enormi sacrifici anche economici, non arrivano mai. In questo caso non si tratta di ricordare chi è uscito dalla sua casa e non vi è mai ritornato, come fu per ebrei e rom deportati nei campi di sterminio, ma chi è partito da lontano e qui non è mai arrivato.
Ricordare la loro assenza nelle nostre aule, nelle scuole che avrebbero frequentato se fossero riusciti a giungere fin qui, assume allora il valore morale di un gesto che testimonia la sensibilità civile di chi si accorge e presta attenzione all’enorme tragedia che si sta compiendo poco lontano dai nostri occhi distratti.
Per questo l’idea di porre pietre d’inciampo davanti alle nostre scuole, ricordando il ragazzo con la pagella cucita nel vestito e tutti i suoi compagni di viaggio mai arrivati, è stata fatta propria dal “Tavolo Saltamuri” (www.saltamuri.it), a cui hanno aderito le principali associazioni professionali dei docenti e che coordina da settembre dello scorso anno oltre 130 gruppi impegnati a promuovere una “educazione sconfinata per l’infanzia, i diritti, l’umanità”. Si stanno moltiplicando le scuole che hanno fatto propria questa indicazione, dalla Macigni Strozzi della Garbatella a Roma alle scuole Amari, Roncalli e Ferrara di Palermo.
Non cancellare una scritta offensiva
Il tema di una traccia di memoria come stimolo al ragionare è stato rilanciato, in tutt’altro contesto, da un preside di Ravenna. Di fronte alla scritta “Il preside è gay”, apparsa sul muro del liceo scientifico Oriani, Gianluca Dradi, dirigente scolastico di quell’istituto, decide di non cancellarla, sostenendo pubblicamente l’importanza che “rimanga lì”. “Ho pensato che potesse essere più educativo farla rimanere lì come pietra d’inciampo per l’intelligenza”, ha spiegato pubblicamente. “Episodi simili sono sempre accaduti, ma questo non vuol dire che debbano continuare. Dal punto di vista culturale il lavoro c’è, ma talvolta non è sufficiente, come si vede”, ha dichiarato, precisando infine: “Ciò che offende non è la falsa attribuzione di una condizione, ma il fatto che uno studente del mio liceo l’abbia pensata come un’offesa”.
Una presa di posizione coraggiosa e significativa, che prova ad affrontare il tema della discriminazione sessuale. Del resto trovare modi, gesti e forme, affinché come simboli, segni e tracce ci aiutino a ricordare e ragionare, non è uno dei principali compiti che dovrebbe assumere la scuola, nel contrastare ogni discriminazione e ricordare l’impegno a rimuovere ostacoli di ogni sorta che ci prescrive la Costituzione?