L’alternanza scuola-lavoro: oltre il cambio di nome

L’alternanza scuola-lavoro in Italia: un “sentiero interrotto”?

La pratica dell’alternanza scuola-lavoro (AS-L) ha nella scuola italiana una tradizione più che ventennale, ma nel complesso ha inciso piuttosto poco nella quotidianità dell’organizzazione scolastica, non avendo avuto – fino alla legge 107/2015 – un carattere curriculare. Nonostante ciò, nell’ultimo decennio la sua assunzione da parte di molte scuole, pur in una chiave prevalentemente “orientativa” e “didattica”, ha contribuito a costruire delle condizioni utili per la crescita di una prospettiva più strategica dell’AS-L, finalizzata anche allo sviluppo di un nuovo rapporto tra autonomia scolastica e territorio.

Con la legge 107/2015 si è assistito ad un rilancio sistemico dell’AS-L non solo in termini quantitativi, ma anche attraverso alcune innovazioni del modello formativo, a partire:

– dal carattere curriculare dell’AS-L, valido per tutto il secondo ciclo di istruzione (licei, istituti tecnici e istituti professionali), con un monte-ore obbligatorio variabile da 200 a 400 ore nell’ultimo triennio,

– dalla valorizzazione dell’ambiente di apprendimento rappresentato dai luoghi di lavoro (imprese, pubblica amministrazione, terzo settore, associazionismo, professioni, …), complementare a quello dell’aula, del laboratorio, ma con un valore formativo ritenuto equivalente.

Tale prospettiva, che ha interessato a regime circa un milione e mezzo di studenti, tentava di superare la concezione dell’AS-L come semplice metodologia “didattica”, a favore di un percorso più esperienziale centrato sull’apprendimento autonomo degli studenti, in quanto capaci di integrare gli apprendimenti maturati nei contesti formali (scuola) e in quelli non formali (luoghi di lavoro), soprattutto in vista di promuovere competenze utili sia per la cittadinanza che per l’occupabilità.

Se l’apprendimento è “situato”

Sul piano pedagogico, questo tipo di AS-L si ispirava ad un paradigma centrato sull’”apprendimento situato” (situated learning)[1] e sul coinvolgimento attivo del soggetto in formazione; forse per questo la sua estensione a livello curriculare ha scompaginato non poco il modello didattico tradizionale della scuola italiana.

Tale paradigma è documentabile anche nella Guida operativa predisposta dal MIUR nel 2015 per orientare l’applicazione della nuova AS-L, in cui si punta a “fare uscire i ragazzi dalle aule” per metterli a contatto direttamente col mondo del lavoro.

Un’opportunità preziosa, ma che ha rappresentato in molti casi un rischio, sia in termini educativi (dovendo assumere il partenariato formativo delle “organizzazioni ospitanti”), sia in termini gestionali.

L’organizzazione prevista per l’AS-L richiede infatti, secondo la Guida, numerosi passi, tra cui:

a) scegliere le tipologie di attività più pertinenti agli obiettivi formativi curriculari e più sostenibili dagli studenti;

b) reperire le imprese partner e stabilire i relativi accordi;

c) impostare il piano operativo dell’AS-L;

d) abbinare gli studenti alle imprese e definire i piani individuali dell’AS-L (personalizzazione);

e) monitorare l’andamento dei percorsi e delle progressioni degli studenti.

Un’alternanza di qualità

È piuttosto evidente che un’alternanza di qualità richiede da un lato un forte ripensamento del processo di apprendimento scolastico tradizionale, a favore del modello basato sulle competenze (in notevole discontinuità con una valenza solo didatticista assegnata dell’AS-L), dall’altro un’alleanza educativa con le “organizzazioni ospitanti” e col territorio.

Per questo l’introduzione dell’AS-L su base curriculare ha comportato, in molti istituti scolastici ed insegnanti, grandi resistenze oppure disorientamento, a partire dal timore del venir meno della regia educativa della scuola, del prevalere di un “funzionalismo aziendalistico” sulla qualità formativa, fino alla denuncia del rischio di sfruttamento degli studenti in stage.

Dopo il primo triennio di sperimentazione il nuovo governo gialloverde ha ritenuto opportuno intervenire sull’AS-L, ora ri-denominata “Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento” (PCTO), riducendone il monte-ore minimo obbligatorio e dimezzandone i fondi.

Si tratta di una scelta che, pur motivata da oggettive disfunzioni e/o difficoltà di applicazione della L. 107/2015 verificatesi in molte scuole (soprattutto nei licei), appare tuttavia poco lungimirante, specialmente alla luce delle più recenti tendenze riscontrabili nei sistemi scolastici europei e internazionali.

L’alternanza “formativa”: un breve sguardo all’Europa

Per “alternanza formativa” si intende comunemente un modello educativo basato sull’alternarsi di periodi di formazione teorica, effettuati presso una scuola o un’agenzia formativa, e periodi di formazione pratica, realizzati presso una o più imprese. Tale scansione caratterizza ancora oggi una parte dei sistemi educativi europei.

In molti Paesi dell’Unione europea i termini “alternanza” e “apprendistato” sono spesso usati in modo intercambiabile, anche se concettualmente ciò non è corretto. Questi modelli infatti sono sì caratterizzati da una più o meno elevata intensità di integrazione tra la formazione (scolastica) e il lavoro o situazioni di lavoro simulate, ma differiscono profondamente sul piano didattico e organizzativo.

Tre modelli a confronto

Ciò ha portato molti studiosi a individuare un framework comparativo di modelli. Il Cedefop, ad esempio, ne definisce tre principali.

Apprenticeship

Il primo, detto “formazione in alternanza”, si riferisce a percorsi che uniscono e/o alternano i periodi trascorsi in un istituto di istruzione o in un centro di formazione professionale e quelli trascorsi nei luoghi di lavoro. Lo schema di alternanza può avvenire attraverso tirocini su base settimanale, mensile o annua. A seconda degli ordinamenti del Paese e della situazione locale, i partecipanti possono essere giuridicamente studenti oppure contrattualmente legati al datore di lavoro e/o ricevere un compenso; in questo caso si entra nella tipologia giuridica dell’“apprendistato” (apprenticeship)[2].

Traineeship

Un secondo modello è più basato sulla scuola e prevede la formazione on-the-job, attraverso stage o tirocini che sono incorporati come un elemento obbligatorio o facoltativo dei programmi che portano a titoli e/o qualifiche formali. Essi possono essere di durata variabile, ma tipicamente ben inferiori al 50% della durata del programma di formazione (spesso circa il 25-30% o meno). Questo modello (traineeship) è inteso come meccanismo di transizione che consente ai giovani di familiarizzare col mondo del lavoro e, quindi, facilitare il passaggio dalla scuola al lavoro. In alcuni Paesi programmi di tale tipo sono un prerequisito per poter completare un percorso di formazione tecnica o professionale.

Impresa simulata

Un terzo modello fa ricorso a situazioni di simulazione, in cui gli studenti sviluppano attività in “imprese simulate” (variamente definite “didattiche”, “di pratica”, “di transizione”, “junior”), con supporti di tipo laboratoriale e/o utilizzando degli specifici software gestionali. L’obiettivo è quello di ricreare un contesto di lavoro che imiti il più possibile quello reale, per facilitare la formazione di competenze progettuali, operative e relazionali in grado di allenare gli studenti a gestire contatti con aziende o clienti reali, e sviluppare così anche competenze di tipo imprenditoriale.

L’apprendimento basato sul lavoro

In molti Paesi questi tre modelli si possono combinare e integrare tra di loro, com’è avvenuto in Italia, oppure convivono in parallelo con i programmi di apprendistato e/o con quelli dei servizi per l’impiego.

Lo si può vedere anche nella recente esperienza della “via italiana al sistema duale”, sviluppatasi nei sistemi regionali di istruzione e formazione professionale (IeFP), che tenta di integrare tre situazioni convergenti verso una “formazione in assetto lavorativo” di qualità: l’apprendistato (in cui il giovane ha un regolare contratto), l’alternanza formativa rafforzata (che prevede 450 ore da fare in azienda, ma restando studente), l’impresa formativa simulata (da realizzare nel Centro di formazione).

In questo caso il modello formativo di riferimento è quello dell’apprendimento basato sul lavoro (work based learning), che coinvolge i giovani in quanto “tirocinanti” o “apprendisti”; esso è in generale un buon esempio di situazione generativa di competenza e, in quanto tale, reciprocamente vantaggiosa sia per gli studenti che per le aziende coinvolte.

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[1] Cfr. Lave J., Wenger E. (2006). Come è noto, questi autori propongono una radicale reinterpretazione del concetto di apprendimento, considerato non come indotto dall’insegnamento, né solo legato alla sfera individuale, ma come una pratica sociale, cioè un processo attivo che avviene all’interno di una cornice partecipativa.

[2] Cfr. Cedefop, Glossario della formazione professionale, 2008. Va ricordato che i Paesi con forti sistemi di apprendistato dimostrano ottimi risultati in termini di transizione dei giovani al mondo del lavoro. Gli studenti acquisiscono le competenze necessarie per un primo passo nel mercato del lavoro, mentre i datori di lavoro allenano la loro forza lavoro, fornendo le conoscenze, le abilità e le competenze di cui hanno bisogno per rimanere competitivi.