A volte nella scuola si assiste ad un profluvio di sigle e acronimi da lasciare attoniti (PTOF, RAV, PDM, UdA, ecc.). Forse dipende anche da questo gergo se un tema nobile come quello delle competenze è diventato divisivo, tanto da smuovere “maître à penser” altolocati e schiere di docenti a firmare petizioni contro le competenze (cfr. Muraglia, 105) Ma perché le competenze suscitano tante reazioni? Certamente c’è l’effetto alone dell’Europa e delle sue otto competenze chiave, vera e propria moneta unica della pedagogia europea, rinnovata nel maggio 2018. Le stesse Indicazioni Nazionali e Linee Guida per tutti i livelli scolastici sono strutturate per competenze (“il profilo delle competenze, i traguardi di competenza”), e ora viene la richiesta ministeriale di valutare e certificare le competenze (D.lgs. 62/2017). Sono tutte buone ragioni, ma c’è dell’altro. Forse si coglie il fatto che il termine “competenza”, se correttamente inteso, ben rappresenta l’idea di un apprendimento di qualità, non inerte ma capace di mobilitare le risorse (cognitive, sociali, affettive) degli allievi di fronte a situazioni sfidanti. Insomma un modo per andare oltre la routine delle lezioni frontali, che vedono gli allievi troppo spesso passivi spettatori di ciò che avviene in classe. Ma tutto ciò apre nuovi interrogativi, dubbi, atteggiamenti difensivi. Le competenze sono le benvenute se non provocano solo un frettoloso cambio di casacca (“mettiamo le competenze al posto degli obiettivi, mettiamo le unità di apprendimento al posto delle unità didattiche”), ma stimolano una ricerca intelligente sul buon apprendimento degli allievi e sulle buone didattiche per favorirlo.
2019-01-06