Il caso Benevento
All’avvio del nuovo anno scolastico giunge una pronuncia che dovrà essere tenuta in debito conto nell’organizzazione del tempo-mensa.
Dopo che, con la sentenza n. 01566/2018, il TAR Campania (Sezione Sesta) aveva accolto il ricorso presentato da un gruppo di genitori, che avevano impugnato le deliberazioni n. 21/2017 (del Consiglio Comunale) e n. 121/2017 (della Giunta Comunale) adottate dal Comune di Benevento, con cui era stata sancita l’obbligatorietà del servizio di ristorazione scolastica con il divieto di consumare, nei locali in cui si svolge la refezione, cibi di fonte diversa – comportamento considerato, oltre che non corretto dal punto di vista nutrizionale, possibile fonte di rischio igienico-sanitario –, il Consiglio di Stato (CdS) ha respinto l’appello proposto dall’ente locale.
La pronuncia del Consiglio di Stato
Con la sentenza n. 5156/2018 il Giudice amministrativo ha dapprima affrontato le questioni di rito riguardanti le eccezioni relative al difetto di giurisdizione ed all’inammissibilità del ricorso introduttivo per carenza di interesse, ritenute entrambe infondate.
Richiamando consolidata giurisprudenza, in particolare, il Consiglio di Stato ha rilevato il “riconoscimento costituzionale dell’idoneità del giudice amministrativo ad offrire piena tutela ai diritti soggettivi, anche costituzionalmente garantiti, coinvolti nell’esercizio della funzione amministrativa (Corte cost., 27 aprile 2007, n. 140, a tenore della quale non vi è alcun principio o norma nel nostro ordinamento che riservi esclusivamente al giudice ordinario – escludendone il giudice amministrativo – la tutela dei diritti costituzionalmente protetti)”.
Quanto all’eccepita carenza di interesse, il divieto di consumare pasti diversi da quelli forniti dall’impresa appaltatrice del servizio di refezione scolastica, oltre ad essere immediatamente operativo (c.d. regolamento self-executing), in quanto incidente sulla sfera giuridica dei ricorrenti, limitandola, risulta “idoneo ad arrecare agli stessi una lesione attuale e diretta: vuoi nella qualità di legali rappresentanti (art. 320 Cod. civ.) dei minori immediatamente toccati, quali alunni, dalla disposizione; vuoi nella qualità propria di genitori, come tali titolari della primaria funzione educativa ed alimentare nei confronti dei figli, e non solo dell’inerente formale obbligazione (art. 433, n. 3), Cod. civ.)”.
Nel merito della sentenza
Ma soprattutto il CdS ha ritenuto l’appello infondato nel merito, in primo luogo evidenziando che “Vi è, anzitutto, un’incompetenza assoluta del Comune, che – spingendosi ultra vires – con il regolamento impugnato impone prescrizioni ai dirigenti scolastici, limitando la loro autonomia con vincoli in ordine all’uso della struttura scolastica e alla gestione del servizio mensa“.
Ed invero il regolamento comunale interferisce con la circolare Miur n. 348/2017 che, in conseguenza del “riconoscimento giurisprudenziale” del diritto al pasto da casa, nelle more della pronuncia della Cassazione ha ammesso “la possibilità di consumare cibi portati da casa, dettando alcune regole igieniche ed invitando i dirigenti scolastici ad adottare una serie di conseguenziali cautele e precauzioni“.
Il diritto di libera scelta alimentare
La scelta “restrittiva radicale” del Comune non solo non appare supportata da alcuna dimostrata ragione di salute o di igiene, ma soprattutto “limita una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori, vale a dire la scelta alimentare: scelta che – salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro – è per sua natura e in principio libera, e si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici“.
Il Consiglio di Stato ha quindi riconosciuto ai genitori il diritto di libera scelta alimentare, che può essere limitato solo laddove “sussistano dimostrate e proporzionali ragioni inerenti quegli opposti interessi pubblici o generali. Queste ragioni, vertendosi di libertà individuali e nell’ambiente scolastico, non possono surrettiziamente consistere nelle mere esigenze di economicità di un servizio generale esternalizzato e del quale non si intende fruire perché non intrinseco, ma collaterale alla funzione educativa scolastica; e che invece, nella situazione restrittiva data, verrebbe senz’altro privilegiato a tutto scapito della libertà in questione“.
La sentenza afferma che l’impugnato regolamento, oltre a non preoccuparsi di cercare “un bilanciamento degli interessi” in gioco, “manifestamente non corrisponde ai canoni di idoneità, coerenza, proporzionalità e necessarietà rispetto all’obiettivo – dichiaratamente perseguito – di prevenire il rischio igienico-sanitario. E l’assunto che ‘il consumo di parti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale’ si manifesta irrispettoso delle rammentate libertà, e comunque è apodittico“.
Chi deve garantire la sicurezza igienica degli alimenti?
Inoltre, come aveva anche rilevato il TAR, “l’inidoneità e l’incoerenza della misura emerge in particolare dalla considerazione che non risulta, ad esempio, inibito agli alunni il consumo di merende portate da casa, durante l’orario scolastico“.
La sicurezza igienica degli alimenti portati da casa, se non può essere aprioristicamente esclusa da un regolamento comunale, va tuttavia “rimessa al prudente apprezzamento e al controllo in concreto dei singoli direttori scolastici, mediante l’eventuale adozione di misure specifiche, da valutare caso per caso, necessarie ad assicurare, mediante accurato vaglio, la sicurezza generale degli alimenti“. È conseguenza logica, comunque, che anche in tal caso il diritto non può essere escluso, e quindi non vi potrà essere una interdizione generalizzata.
Tra genitori, dirigenti scolastici ed Enti locali
Per l’effetto la prescrizione regolamentare del divieto di permanenza nei locali scolastici per gli alunni che intendono consumare il pasto da casa “si rivela, pertanto, affetta da eccesso di potere per irragionevolezza, in quanto misura inidonea e sproporzionata rispetto al fine perseguito“.
Una sentenza indefettibile, che riconosce il diritto di scelta delle famiglie ed impone una riflessione ad enti e scuole, compensando tuttavia le spese di giudizio, in virtù della peculiarità della controversia, che pure costituisce oggetto di approfondimento giurisprudenziale ormai da due anni.
Una ragione di più per costruirlo davvero, questo patto con le famiglie.