Una comunità “scolastica” post-ideologica
Nella Sezione Scuola dell’Ipotesi di Contratto del 9 febbraio scorso, un articolo che ha molto incuriosito è quello rubricato Comunità educante (art. 24). È noto che, dalle prime elezioni scolastiche dei decreti delegati del 1974, Comunità Educante era il motto con il quale una fetta del mondo cattolico aggregava i suoi elettori. Sul fronte opposto si collocavano le associazioni che si ispiravano ai valori della sinistra e della laicità (nelle quali comunque si riconoscevano anche molti cattolici).
Va detto subito che la locuzione, per come è sviluppata nell’articolo 24 del CCNL, non ha nessuno degli aspetti che allora a sinistra si definivano integralisti[1]. Testualmente: “Ai sensi dell’articolo 3 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n. 297 (Testo Unico), la scuola è una comunità educante di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni”.
Va certamente richiamato che nell’articolo citato del Testo Unico si parla in verità di Comunità scolastica, e non di Comunità educante (CE); ma va anche riconosciuto che nella definizione riportata ci sono parole chiave assolutamente coerenti con i nostri ordinamenti e la cultura scolastica più avanzata.
Detto questo, però, qualche considerazione e riflessione – non proprio accademica e probabilmente utile – va comunque fatta su questo articolo.
Se la scuola è una comunità educante
La prima osservazione si riferisce sia alla modalità assertiva con cui si definisce la scuola (“la scuola è una comunità educante”), sia all’utilizzo dell’aggettivo educante, che qualifica il tipo di comunità con cui la scuola viene identificata.
Non c’è bisogno di essere acuti analisti per dire che non ogni scuola educa, pur essendo questa una sua funzione. Ce lo ricorda opportunamente Luciano Corradini in uno scritto di alcuni anni fa[2].
La dimensione educativa, infatti, non basta affermarla nei POF, piuttosto che in un Contratto, per concludere che la scuola è una comunità che educa. Tale dimensione si sostanzia piuttosto, come è noto, in comportamenti condivisi che, nelle specifiche articolazioni (dirigente scolastico, personale docente ed ATA, studenti delle superiori, genitori), assume a riferimento: sotto il profilo contenutistico, le competenze chiave di cittadinanza; sotto il profilo relazionale, il dialogo, la collaborazione, la corresponsabilità. Il sentirsi, cioè, dentro un progetto comune e condiviso, che è fattore di appartenenza, fondativo dell’essere comunità.
Le nostre scuole sono diffusamente tutto questo? Si diventa tali solo se si matura una visione che prefigura traguardi magari alti, ma raggiungibili, e se si elabora un progetto educativo che – sappiamo per esperienza – implica sempre costruzione faticosa, processi e monitoraggi impegnativi, ma anche adeguate condizioni di base.
Perché “educante”?
Interrogativi non meno impegnativi – ed è la seconda riflessione – pone anche l’uso disinvolto dell’aggettivo educante. Ancora Corradini, nell’articolo citato, metteva in guardia contro l’uso della parola educante, a cui preferiva il termine educativo, che sottolinea piuttosto la tensione all’educare[3].
Tutto questo per dire che l’uso di locuzioni come Comunità Educante, che presentano ambiguità e sono stati – e per alcuni aspetti sono tuttora – divisivi del mondo della scuola, qualche perplessità – diciamo così – la solleva.
Soprattutto se queste locuzioni si leggono dentro un Contratto di lavoro, per giunta sottoscritto da Organizzazioni sindacali confederali che, quando le elezioni scolastiche erano momenti anche molto vivaci di contrapposizioni ideologiche, non si collocavano generalmente dalla parte di Comunità Educante.
Sull’idea di comunità
Ma, educante a parte – ed è la terza riflessione che qui si vuole fare – c’è da chiedersi quali possano essere le ragioni del recupero e dell’enfasi sul concetto stesso di comunità nel testo contrattuale.
Le ragioni vanno molto probabilmente ricercate nel bisogno e nella ricerca di un nuovo clima nei rapporti dell’intero sistema – a partire dai livelli più elevati (dove troviamo il Miur, ma anche le OO.SS.) fino a quelli dentro le scuole – che tenda a superare diffidenze e litigiosità, recuperando un modo di stare assieme tendenzialmente improntato a fiducia reciproca e disponibilità all’ascolto.
Richiamare l’idea di comunità significa valorizzare le esperienze e le competenze di ciascuno, in rapporto non solo alle funzioni specifiche, ma al progetto complessivo di scuola; significa recuperare l’idea di reciprocità, contrastando visioni gerarchiche, autoritarie ed elitarie nella partecipazione al progetto educativo, pur dentro le distinzioni di compiti e responsabilità.
La comunità come risorsa
A questa visione rinvia il riferimento all’“utilizzo integrale delle professionalità in servizio presso l’istituzione scolastica” (DS, ATA, docenti, studenti, famiglie), ove “ognuno, con pari dignità e nella diversità dei ruoli, opera per garantire la formazione alla cittadinanza, la realizzazione del diritto allo studio, lo sviluppo delle potenzialità di ciascuno e il recupero delle situazioni di svantaggio…” (art. 24, commi 1 e 3).
Il senso di quest’ultima affermazione è chiaro: se la scuola tende ad essere una comunità educativa, a tutte le varie professionalità che vi operano va riconosciuto pari dignità nel perseguimento delle finalità formative della scuola, pur nella diversità dei ruoli. Ogni persona che vi lavora è una risorsa da valorizzare, a prescindere dalle funzioni e dai compiti legati al ruolo. Aspetto, quest’ultimo, che nella Legge 107 è abbastanza opacizzato.
Alla luce di queste considerazioni, non vi è nessun dubbio che l’idea di comunità possa essere effettivamente una risorsa e un’opportunità, e non solo forse per il pianeta scuola[4].
Lavorare per il futuro prossimo
Quello che forse va evitato è che questa idea di comunità sia giocata come una sorta di petizione di principio. Certo è importante aver recuperato, attraverso di essa, orientamenti e indicazioni di marcia potenzialmente promettenti: il recupero esprime consapevolezza.
Dovrebbe essere richiesta ora – ma la situazione politica è, in questa fase, quella che è – l’attivazione di un processo in cui dalle consapevolezze (ma saranno condivise anche dal nuovo governo?) si passi alla costruzione di un progetto in cui sia possibile tradurle in fatti concreti, in quadri normativi di riferimento chiari.
Vanno definite, nei tempi che ci vogliono, le condizioni necessarie per costruire nelle scuole una dimensione comunitaria. Ci riferiamo almeno a quattro aspetti:
- un’efficace governance (che sia tale) ai diversi livelli;
- la valorizzazione delle professionalità – e quindi delle competenze e delle responsabilità, a partire dall’impegno progettuale e dalla cura dei processi previsti/pianificati – secondo criteri nuovi e diversi da quelli sperimentati con la 107;
- una progressione di carriera in cui si liberino dalla precarietà e dall’incertezza le figure professionali vecchie e nuove di cui le scuole hanno bisogno;
- un’autonomia responsabile che recuperi un’idea più chiara, lineare e soprattutto impegnativa del Piano triennale dell’Offerta, che – è bene ricordarlo – non è un contenitore “omnibus”, né l’unico, per quanto il più importante[5].
Materie del prossimo (imminente) CCNL? Brutto sarebbe negarci la speranza.
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[1] Integralisti: termine con cui nel fronte opposto si indicavano i gruppi favorevoli al ‘pluralismo delle istituzioni’ (scuole di ispirazione cattolica, distinte e separate da quelle di orientamento laico o di sinistra), e quindi contrari al ‘pluralismo nelle istituzioni’ (le scuole come luoghi di confronto e potenziale collaborazione tra orientamenti culturali o valori di riferimento diversi).
[2] Cfr. L. Corradini, La nostra scuola oggi: una comunità educante?, in “Scuola e formazione”, febbraio 2012.
[3] Educativo: “che tende ad educare” (lo Zingarelli), “che si propone o riguarda l’educazione” (Devoto-Oli).
[4] V. soprattutto Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2007, e J. Haberma, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, 1992.
[5] Concentrarsi sulla dimensione progettuale e strategica – e quindi organizzativa, programmatica ed educativa –, e su questa costruire un modo nuovo di fare e vivere la scuola, può essere un messaggio che aiuta pensando al prossimo Piano Triennale.