A.A.A. “omogeneità culturale” cercasi?
“Il nostro liceo è situato in un’area dal livello socio-economico alto, in cui l’incidenza degli studenti di cittadinanza non italiana è attualmente quasi nulla, e non ci sono gruppi di studenti che provengono da contesti sociali particolarmente svantaggiati. Gli studenti e le studentesse del liceo possono generalmente contare su famiglie che riescono a sostenere il loro percorso scolastico dal punto di vista delle risorse materiali, e che forniscono loro un ambiente culturale sostanzialmente omogeneo con le finalità educative della scuola”.
Così recita il Rav di un liceo classico posto nel centro storico di una città settentrionale, rispondendo alla prima domanda sul “contesto”. Parole in apparenza neutre, simili a quelle usate da altri licei dello stesso tipo, ma che, soprattutto nell’ultima frase, tradiscono un evidente retropensiero, cioè che quella scuola ha un’utenza socialmente e culturalmente “omogenea” anche con la scuola stessa, e quindi adatta alle finalità educative del liceo classico.
L’incipit conta…
Uno studente di terza media che abiti in periferia, o sia un immigrato o figlio di operai o disabile o straniero, volendo chiarirsi le idee su “Scuola in chiaro” circa la sua futura scelta, e trovandosi a leggere quelle frasi, cosa potrebbe pensare? Qualcosa di diverso da “quella scuola non è per me, anche se mi piacerebbe frequentarla”? Lo stesso pensiero che avrebbero i suoi genitori. Si potrebbe obiettare che, Rav o non Rav, questo sarebbe accaduto ugualmente. Forse sì, ma ora è ufficiale, carta canta, e allora non gli resta che rivolgersi ad altre scuole meno pretenziose. Il diritto costituzionale, sancito dall’art. 34, viene così di fatto conculcato.
Che la scuola italiana sia ancora una scuola di classe non è una novità – è un fatto attestato da numerose ricerche -, ma qui ci troviamo davanti ad una sorta di preavvertimento dell’istituzione scolastica: “guarda, pensaci bene, le nostre condizioni sono queste, sappilo fin d’ora, non osare troppo!” Poi, andando avanti nella lettura del Rav – ma chi ne ha voglia, dopo un simile esordio? -, si potrebbe anche scoprire che la scuola adotta tutte le misure necessarie per sopperire a carenze di ogni tipo, ma, come nei romanzi, è spesso l’incipit quello che invoglia o meno alla lettura.
RAV e PTOF… non solo giochi di parole
Allora questo Rav, così faticosamente partorito, a che serve? Può aiutare la scuola, ogni scuola, a migliorare, guardandosi e analizzandosi un po’ più in profondità? Penso di sì, a patto di non intenderlo come l’ennesimo adempimento, ma come un modo per evidenziare periodicamente i nodi problematici e i risultati del proprio lavoro, e uno strumento, da perfezionare, per imparare a concepirsi come organizzazione, non come una somma di individui tenuta insieme dall’orario, come amava ripetere spesso il compianto Piero Romei. “La scuola – scriveva invece –è una realtà complessa, fatta di tante risorse diversificate che non sono nate per stare insieme, ma che vengono scelte per la capacità di ciascuna di dare un contributo specifico alla realizzazione di un compito unitario, che nessuna di esse è in grado di perseguire da sola”.
Sincerità e trasparenza nei documenti della scuola
Fra i tanti acronimi che molestano il lavoro dei docenti e dei dirigenti io salverei il Ptof e il Rav, intesi in un legame reciproco di causa ed effetto: il piano dell’offerta formativa dev’essere validato dal rapporto di autovalutazione, e questo dev’essere traguardato dal contenuto del piano. Il Ptof è la promessa pubblica di ogni istituzione scolastica, il Rav è un documento interno da stilare con sincerità e anche con un po’ di spietatezza, che metta, questa volta sì, “in chiaro” agli attori del sistema i cosiddetti punti di forza e di debolezza, assumendo in primo luogo, come base condivisa di riferimento, i principi costituzionali sanciti dagli artt. 3, 33 e 34. Solo così si può esercitare quell’azione collettiva che Romei definisce come “necessità funzionale”, per dare un senso più condiviso alla professione dell’insegnamento e toglierlo dall’isolamento e dalla solitudine che sono spesso all’origine di tante forme di stress e di burnout presenti fra i docenti. Anche il principio della libertà di insegnamento, sovente utilizzato per nascondere pigri individualismi, sarebbe così onorato e valorizzato in una dimensione più collaborativa, che rifugga la tentazione diffusa di ricorrere a “relazioni amicali o sociologicamente connotate” (Romei) come base di un’azione collettiva.
C’è anche un’autovalutazione “interna”
Qualche osservazione su “Scuola in chiaro”. A me sembra che questa mania di trasparenza ad ogni costo non sia sempre positiva. Le istituzioni pubbliche devono certamente rendere conto del loro operato – nel caso della scuola attraverso il Ptof, il programma annuale, il bilancio sociale, le riunioni collegiali – ma non è necessario e neanche auspicabile che un rapporto di autovalutazione sia reso pubblico, per di più a fini di orientamento. Per due ragioni: la prima perché la pubblicazione rischia di inficiarne la sincerità e l’autenticità, e come si è visto lo piega, più o meno consapevolmente, a fini pubblicitari; la seconda perché, ammesso che questo non accada, è inopportuno esportare in pubblico valutazioni strettamente didattico-pedagogiche e talvolta psicologiche, che devono restare confinate nella sfera professionale. Sarebbe come dire che un gruppo di medici o psicoterapeuti, professioni di aiuto con le quali anche la scuola ha qualche attinenza, in fase di supervisione di casi pubblicassero le loro discussioni in merito al di fuori della cerchia professionale, o addirittura per farsi pubblicità. Non credo proprio che sarebbe deontologicamente corretto. La scuola non è un ambito sanitario, ma neanche un’azienda il cui lavoro possa essere espresso prevalentemente con numeri.
Sviluppare una seria valutazione esterna
Quindi Rav come documento interno, e la valutazione esterna? I nuclei di valutazione? Io non credo che il sistema attuale, con nuclei variamente compositi, comprensivi anche di colleghi dei “valutandi”, sia la soluzione. La valutazione esterna è necessaria, altrimenti il sistema sarebbe troppo autoreferenziale, ma dovrebbe fondarsi su un corpo – solo per comodità lo chiamerei “ispettivo” – che assuma più il volto e la funzione di un supervisore culturale, pedagogico e organizzativo, capace di stimolare la crescita professionale di tutto il sistema, aiutando i singoli attori ad affrontare positivamente le infinite e sempre nuove problematiche della professione.
La scelta dei licei: una tendenza che viene da lontano
Sulla prevalenza delle iscrizioni ai licei a scapito delle scuole tecniche e professionali molto è stato detto e raccomandato, dal mondo dell’industria, del sindacato, e da economisti e politici come Romano Prodi. Si tratta di una questione molto complessa che dipende da molte cause, e che richiederebbe una trattazione sistematica di tipo sociologico, storico, statistico e anche antropologico. Mi limito a indicare alcuni motivi, tutti da approfondire: la struttura industriale ed economica del Paese, che non sempre è stata ed è in grado di assorbire tecnici e operai specializzati; l’impostazione, con il primato delle lettere e della filosofia, data alla scuola italiana post unitaria prima da Francesco De Sanctis e poi da Giovanni Gentile, che si è riflessa nella mentalità di tanti insegnanti e della borghesia italiana; il mito della professione intellettuale, molto vivo nel sud, anche per ragioni economiche, che ha prodotto generazioni di avvocati, notai e letterati. Infine la mia lunga esperienza nella scuola mi suggerisce che conti, nella scelta delle ragazze, anche una certa ruvidezza relazionale che si pensa esista, non a torto, in scuole tecniche a prevalenza maschile.