Pochi laureati e inflazione di titoli umanistici
Il 12 settembre scorso è stato presentato l’autorevole rapporto annuale dell’OCSE “Education at a glance 2017”, uno sguardo sullo stato dell’istruzione nel mondo, corredato dalle schede nazionali dei 35 paesi membri e di una serie di paesi partner.
Sin da subito lo “sguardo” sul nostro Paese fa registrare la preferenza degli studenti italiani (e stranieri che studiano in Italia) per i corsi di studio umanistici, quali belle arti, scienze sociali, giornalismo e informazione, registrando una quota complessiva del 30% tra i laureati (il tasso più alto tra i Paesi dell’OCSE) rispetto al 24% delle discipline a indirizzo scientifico (STEM).
Troppi, quindi, i laureati in discipline umanistiche, e troppo pochi coloro che giungono alla laurea: con soli 18 italiani su 100 che conquistano il sospirato “alloro”, meno della metà rispetto alla media OCSE del 37%, ci posizioniamo in penultima posizione, davanti soltanto al Messico, e lontani dal 41% della Svizzera e dal 46% raggiunto da USA e Regno Unito.
Sonora, pertanto, la bocciatura dell’OCSE sull’orientamento scolastico e universitario, e sulla scelta di quei percorsi universitari che difficilmente trovano collocazione nel mercato del lavoro.
Continuare ad ignorare questi dati significa, volendo citare un paradosso, che Achille non raggiungerà mai la tartaruga, e l’Italia perderà il treno del suo tempo.
La partecipazione all’educazione pre-primaria è praticamente universale
Un altro dato che emerge a “colpo d’occhio” è la partecipazione dei bambini alla scuola dell’infanzia (istruzione pre-primaria), che in Italia è tra le più elevate dei Paesi dell’OCSE, con tassi d’iscrizione che raggiungono il 16% per i bambini di due anni, e che superano il 90% per i bambini dai tre ai cinque anni di età, anche se in questo ciclo d’insegnamento la percentuale del PIL destinato all’istruzione (0,5%) è inferiore alla media OCSE (0,8%).
In linea con la media dei paesi OECD, l’84% della spesa per scuola dell’infanzia è finanziata da risorse pubbliche, mentre le famiglie coprono il restante 16%, anche se in Italia i trasferimenti dai governi centrali e regionali a quelli locali sono relativamente bassi.
Insomma nonostante la non obbligatorietà della nostra scuola dell’infanzia, la partecipazione a questo segmento educativo è praticamente universale, con il 72% di bambini che frequentano la scuola pubblica e il resto iscritti nelle scuole private (in larga parte paritarie).
L’Italia possiede un esteso sistema di educazione tecnica e professionale
Alla stregua di circa un terzo dei Paesi dell’OCSE, il tasso dei diplomati a livello secondario superiore in Italia è più elevato nei percorsi di studio a indirizzo professionalizzante (tecnico o professionale) rispetto ai percorsi di studio a indirizzo generale. Si prevede che il 39% della popolazione in Italia consegua, nell’arco della propria vita, un titolo di studio secondario superiore a indirizzo generale, e il 53% un titolo secondario superiore a indirizzo professionalizzante.
La probabilità di conseguire un titolo di studio secondario superiore, inoltre, è aumentata dall’85% nel 2010 al 92% nel 2015, mentre tra gli adulti di meno di 25 anni è aumentata dal 67% nel 2010 al 78% nel 2015.
Il paradosso: meno opportunità di occupazione dei laureati rispetto ai diplomati!
L’Italia è uno dei pochi paesi dove le prospettive di occupazione per i 25-34enni con un livello di studi terziario sono inferiori rispetto a quelle per i diplomati dei percorsi di studio professionali della scuola secondaria superiore.
Detto ancora più chiaramente, le opportunità di lavoro per i laureati sono inferiori a quelle dei diplomati degli istituti tecnico-professionali, evidentemente più appetibili per le aziende.
Questa anomalia italiana è legata, probabilmente, ai costi della forza lavoro: i laureati costano di più rispetto a un diplomato formato all’interno dell’azienda e con meno ambizioni professionali.
Le retribuzioni annuali degli adulti laureati, infatti, secondo il rapporto Ocse, sono superiori del 41% rispetto a quelle degli adulti che hanno completato la scuola secondaria superiore, mentre le donne con una qualifica terziaria guadagnano in media l’equivalente del 72% delle retribuzioni degli uomini.
Bassi livelli di spesa per l’educazione nel 2014
Gli istituti dall’istruzione primaria a quella terziaria, in Italia hanno speso in media circa 9.300 dollari statunitensi (€ 7.900) per studente nel 2014, cifra alquanto inferiore rispetto alla media OECD, che si attesta a circa 10.800 USD (€ 9.100). E se il divario è minore per l’educazione primaria e secondaria, dove la spesa per studente è ammontata rispettivamente a 8.400 e 8.900 USD (7.100 e 7.550 euro), particolarmente pronunciato si presenta il divario nell’istruzione terziaria, dove la spesa per studente è stata di circa 11.500 USD (€ 9.754), rispetto alla media OCSE superiore a 15.400 USD (13.000 euro).
Nel 2014, inoltre, la spesa per le istituzioni dell’istruzione si è attestata al 4% del PIL in Italia, un rapporto molto inferiore alla media OCSE del 5,2%, e inferiore del 7% rispetto al 2010. Solo cinque altri paesi si collocavano a un livello inferiore rispetto all’Italia in termini di spesa per le istituzioni dell’insegnamento in percentuale del PIL.
In termini di spesa, l’87% di quella dell’Italia per gli istituti di istruzione viene da pubbliche risorse, l’11% dalle famiglie ed il restante 2% da altri enti privati come aziende, istituzioni religiose e altre organizzazioni no-profit.
Dulcis in fundo: insegnanti italiani meno pagati rispetto ai colleghi europei
L’ultima stoccata dell’OCSE riguarda lo stipendio degli insegnanti, decisamente più basso rispetto a quello dei colleghi degli altri paesi europei, benché con un impegno orario pressoché uguale alle medie europee.
Non si tratta ovviamente di una novità: già a luglio scorso lo stesso OECD metteva a confronto gli stipendi dei docenti in Europa e nel mondo, confermando anche nel Rapporto 2017 l’impoverimento progressivo dei docenti italiani, e certificando che tra il 2005 e il 2014 maestri e insegnanti hanno perso un potere economico del 7%. Nello stesso decennio, invece, dopo di noi solo la Grecia è in pieno default; in Finlandia le buste paga di chi fa formazione pubblica sono cresciute di 6 punti percentuali, in Norvegia del 9%, in Germania del 10% (con stipendi che superano addirittura quelli dei docenti universitari), in Irlanda del 13%.
A questo punto c’è da chiedersi realisticamente: l’imminente avvio delle trattative per il rinnovo contrattuale, bloccato dal lontano 2009 (blocco tra l’altro dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza 178/2015), può rappresentare al di là dei proclami (elettorali?) una concreta occasione per ridare dignità professionale a tutti quei lavoratori che una volta venivano considerati le “vestali della classe media”? O si farà un matrimonio con i fichi secchi?
Ovviamente le aspettative sono tante, ma le speranze, ormai, veramente poche!