Allora, hanno ragione i 600 intellettuali che nella primavera di quest’anno hanno lanciato un grido di allarme sulla fragilità delle competenze linguistiche dei ragazzi italiani? In un documento inviato alle autorità del Paese (cfr. Lettera aperta) autorevoli professori (quasi tutti universitari) lamentano che sulle soglie dell’Università gli studenti presentano gravi lacune nella padronanza della lingua: lessico povero, vistosi errori grammaticali e sintattici, scarsa capacità di argomentazione, ecc. Sotto la lente di ingrandimento è finita quella preparazione indispensabile che gli ordini scolastici inferiori non assicurerebbero agli allievi, in particolare una certa evasività delle Indicazioni per il curricolo del 1° ciclo, critica prontamente smentita dagli “addetti ai lavori” (cfr. Loiero, 28). Che ci sia un deterioramento negli usi della lingua italiana è sotto gli occhi di tutti, ma la diagnosi dovrebbe essere più articolate. Certamente la società della comunicazione con le sue pratiche post-alfabetiche (social, digitale, connessione permanente, emoticon, ecc.) ha dirottato le abilità degli allievi verso altre direzioni; così pure il contesto linguistico di appartenenza (spesso povero o frettoloso) ha il suo peso. Per cui non può essere solo la scuola di base ad essere messa sotto accusa dagli intellettuali, che propongono un rigido sistema di controlli incrociati da parte dei docenti delle scuole “alte” nei confronti degli insegnanti di quelle “basse”, a partire dalla somministrazione frequente di prove di verifica. Si potrebbe obiettare che neppure le scuole superiori sono esenti da critiche, in quanto l’educazione alla lingua è un processo che ci accompagna lungo tutta la vita, con la curiosità di addentrarsi sempre di più nei meccanismi di funzionamento sociale della lingua (come bene ci ha insegnato Tullio De Mauro, di cui dobbiamo lamentare la recente scomparsa). Le sue 10 tesi sull’educazione linguistica democratica, dopo oltre 40 anni, restano del tutto attuali (cfr. Loiero, 40). Nelle scuole secondarie spesso l’educazione linguistica viene assorbita in toto dall’educazione letteraria (anzi, dalla storia della letteratura) e le pratiche di lettura e di scrittura sono spesso lasciate al “talento” dei singoli ragazzi: basti pensare alle resistenze alla diversificazione delle prove d’esame di italiano scritto e alla insospettabile persistenza del classico “tema”. Ma anche le lingue classiche, che godono di un inaspettato revival, possono trasformarsi in una occasione formativa, per accedere a patrimoni culturali inaspettati, che la scuola sembra sottovalutare (cfr. Piazzi, 30). Dunque, una risposta appropriata ai 600 (ne sono giunte anche dal mondo accademico)(cfr. controlettera), dovrebbe comprendere una serena diagnosi dello stato di salute della didattica della lingua, un serio ri-esame dei metodi didattici, un impegno più deciso sul curricolo verticale di lingua dalla scuola dell’infanzia alle soglie dell’Università (cfr. Bortone, 30). Non convince nel documento degli intellettuali questo sapore di antiche gerarchie, tra maestre elementari richiamate all’umile fatica dell’insegnare a “leggere, scrivere, far di conto” e professori già proiettati verso i godimenti delle pagine letterarie (magari riservati a pochi). La competenza linguistica, che sta al centro di tutte le rilevazioni nazionali e internazionali degli apprendimenti, è certamente la chiave di accesso ai saperi e alla democrazia (come ricordava da par suo Don Milani), ma proprio per questo deve diventare un impegno comune per tutta la scuola (e non è detto che i risultati siano proprio a portata di mano).
http://www.oggiscuola.com/web/2017/02/11/appello-dei-600-docenti-risponde-la-prof-la-colpa-non-e-della-scuola-e-vi-spiego-perche/