Un decreto legislativo (n. 378) utile perché fa discutere
L’inclusione scolastica italiana ha molti punti di crisi, e non consola l’illusione sul fatto che siamo comunque i migliori in Europa. Ci vuol poco a vedere come questa stia scivolando verso una falsa inclusione declinante verso l’“isolazione”. Per questo considero utile la bozza del Decreto Legislativo 378, come l’ampio dibattito che ne è nato, con proposte anche molto diverse tra loro. Un segno che non si può più restare al palo del presente. Qualsiasi decreto sarà approvato non risolverà magicamente la crisi, che è fenomeno di lungo periodo, ma forse potrà dare una prospettiva migliore. Per questo è comunque doveroso fare qualcosa e farlo presto.
Nel merito della Bozza ho già scritto un commento “laico”, rilevando luci e ombre con un giudizio complessivo non negativo. Ho poi tra i primi colto il madornale errore presente in un altro Decreto circa gli esami di stato nella scuola media, che la ministra Fedeli si è impegnata a risolvere. Quindi qui non ne parliamo.
Lo scontro tra scolasticistici e specialistici
Vorrei invece andare qui al cuore delle principali questioni di fondo sottese all’accesa discussione sul Decreto. Discussione che conferma la presenza di un contrasto storico di carattere pedagogico più che politico tra i diversi soggetti sociali e professionali coinvolti nella disabilità. Vi sono idee divergenti su alcuni aspetti pratici (es. il sostegno), ma che toccano in realtà questioni di fondo sulla natura dell’inclusione. Già in un altro saggio (I dilemmi della pedagogia difensiva, 2016) avevo analizzato questo scontro, che non è di carattere episodico ma strutturale. In sintesi, si contrappongono due scuole di pensiero.
L’approccio scolasticistico
Gli “scolasticisti” sostengono la necessità di andare oltre la separazione tra docenti curricolari e di sostegno, si basano sul sostegno partecipato, come ad esempio l’idea dei docenti bis-abili a cattedre miste.
Lo scopo è creare una speciale normalità in cui tutti i docenti realizzano inclusione. La visione dell’alunno con disabilità è tendenzialmente olistica, la vita tra pari è significante. Gli scolasticisti mettono al centro la scuola comunità, flessibile in ogni momento educativo, fondata nel sostegno diffuso in forme individuali e collettive. È la tendenza più vicina alla storia pedagogica dell’inclusione degli anni ‘70. Ma è anche una tesi oggi spesso in crisi nella pratica. È minoritaria nelle famiglie.
L’approccio specialistico
Gli specialistici sostengono invece come necessario l’irrobustimento specialistico della scolarizzazione con più forte individualizzazione, con docenti di sostegno a lauree separate per riparare il dilettantismo di molti docenti, favorendo così didattiche speciali mirate, considerate la pre-condizione per l’inclusività.
Gli specialistici trattano la disabilità come sintomo descrivente la persona, ridimensionano la visione olistica, considerano i pari come contorno, accentuano la necessità di didattiche riabilitative.
Il docente di sostegno diventa il prius inclusivo: senza interventi speciali centrati sul “sintomo” non c’è vera inclusione. Questa tesi è diffusa nelle associazioni delle famiglie ma tocca anche alcune aree di insegnanti, fino a proporre un sostegno 1:1 strutturale. Rafforza questa tesi l’attuale crisi (quella del rischio isolazione) per la confusa organizzazione, la mancanza di formazione di tutti i docenti, il dilettantismo di molti sostegni con o senza titolo, la delega pervicace al sostegno, la marginalizzazione dei disabili nelle aule h, ecc… Una corporativa mobilità impiegatizia condiziona da sempre la discontinuità dei sostegni. Contro queste patologie gli specialistici propongono non solo correttivi, ma un modello “altro”: l’idea inclusiva solo pedagogistica e sociale, bella da dirsi, in realtà non funziona, è sbagliata culturalmente e scientificamente: si chiede in sostanza una scuola specialmente speciale, anche se in ambito scolastico normale.
Due visioni dell’inclusione?
Ho scritto qui gli estremi delle due polarità, che hanno anche diverse gamme di proposte intermedie, ma il contrasto è radicale: la prima scuola di pensiero critica la seconda per il rischio di medicalizzazione, la seconda critica la prima per il rischio di un’inclusione illusoria.
Eppure entrambe le scuole di pensiero contengono, come capita spesso, alcuni nuclei di verità meritevoli di essere dialetticamente approfonditi, evitando di buttarli come al solito in politica. Il Decreto risente della querelle, ondeggia con un mix tra i due approcci, e pare scontentare un po’ tutti. Inevitabile.
Alla prima scuola appartengono pedagogisti e docenti eredi dell’inclusione nata negli anni ‘70, mentre la seconda viene dalle associazioni delle famiglie, spesso (giustamente) arrabbiate per la cattiva integrazione.
Però, più sullo sfondo, non si può non notare l’effetto di un’epoca culturale e scientifica che ha clinicizzato il disabile e allargato il concetto di “male” oltre ogni confine educativo (DSA, BES, ecc..). Ne ho già scritto ampiamente nei miei saggi dal titolo “La grande malattia” (2013-2014) a cui rinvio.
La neo-pedagogia clinicistica
Una profonda crisi della visione olistica della persona causata da una mitica idea di benessere, e l’invasione della medicalizzazione (non solo per la disabilità), ha diffuso molte teorie e pratiche para-pedagogiche, fino alla farmacologia. Questa visione interpreta le persone come sintomo, cui rispondere con una neo-pedagogia clinicistica, con il fascino di trattamenti individualizzati per ogni sintomo, ben oltre una visione della scuola come comunità. Al centro ci sta “l’intervento” in cui la scuola è solo un contesto secondario (a volte un pericolo). Questa idea di inclusione rischia di diventare, nelle nostre scuole, una finzione che ho chiamato appunto isolazione. Questo approccio ha creato scuole, leggi, formazione, vasta letteratura, a fronte di una crisi del modello inclusivo attuale. Soprattutto offre a molte famiglie affrante dalla mala-scuola una risposta suggestiva, a fronte del disordine pedagogico e organizzativo. Ha favorito questa tendenza anche il mito del cognitivo come fondamento della scolarizzazione post-moderna. Suggerisce una “possibile terapia a tutto”, centrata su un mitico diritto al benessere, che non coglie la vita umana come groviglio bio-psico-sociale capace di una sua adattabilità, ma come sintomo per cui si auspica solo una qualche “guarigione”.
Spazi di riflessione e mediazione sui principali nodi critici
Si sa da sempre, per chi mi legga o mi conosca, che sono a favore delle tesi degli scolasticisti, ma non nego alcune ragioni degli altri e cerco di comprenderne il senso. Lungi da me cercare una mediazione, ma vorrei provare una riflessione almeno su alcune cautele comuni da osservare per trovare un senso ed alcune buone soluzioni che cerchino realisticamente di migliorare la qualità dell’inclusione. In discussione non vi sono questioni sindacali, ma il punto di base sull’idea di normalità, specialità, inclusione, pedagogia.
Osserverò qui le cinque questioni a mio avviso più significative di cui è possibile discutere costruttivamente.
La formazione di tutti i docenti sui temi dell’inclusione
Nel Decreto 378 si conferma il principio, ma il risultato è molto debole sia per la formazione iniziale, con alcuni paradossi per l’istruzione superiore, sia per quella in itinere (ma almeno finalmente obbligatoria). Tutti ritengono serva più chiarezza. Il Decreto andrebbe quindi ri-descritto ponendo l’inclusione come “il tema della scuola” e non come “un tema accessorio”. Riguarda tutti gli alunni, tocca le didattiche, i curricoli, l’organizzazione, la valutazione formativa, la scuola comunità, ecc. Su questo punto le due scuole di pensiero convergono, per fortuna.
Formazione iniziale dell’insegnante di sostegno
Il dibattito è aspro, tra chi sostiene la laurea ad hoc e chi sostiene la specializzazione, comunque da migliorare. L’esito nel Decreto è ambiguo, tra scuola dell’infanzia e primaria con curricula accademici simili a prima, e invece nella media e superiore una lunga e confusa formazione di tutti, con un percorso parallelo per i sostegni. Non è insomma chiarito del tutto il profilo sistemico dell’insegnante di sostegno, tra competenze specialistiche (comunque necessarie) e meta-competenze pedagogiche. La mia opinione è già stata detta: sostegno diffuso. Ma non posso negare che la ricerca scientifica e pedagogica offra oggi strumenti e tecniche che vanno compresi ed utilizzati meglio prima di tutto (ma non solo) dai docenti di sostegno, in una visione però pedagogica e non clinicistica. Isolare troppo i docenti di sostegno fa mettere loro un camice para-medico e aumenta l’isolazione; formarli genericamente vuol dire perdere buone opportunità inclusive. Mi pare che qui ci sia molto ancora da fare.
Il riferimento alla Legge 328/2000
È un aspetto importante del Decreto e che pochi hanno colto, forse perché questa Legge è poco nota a scuola. La logica della 328 rinvia ai piani di zona e al progetto di vita, obbliga ad azioni multi-professionali e multi-istituzionali. Significa governance consapevole. Per questi motivi ho sottovalutato nella prima lettura del Decreto l’assenza per esempio dei GLHO o dei genitori nelle fasi di inclusione. Il fatto è che consideravo questa “assenza” non una voluta cancellazione di essenziali aspetti partecipativi, ma la loro implicita prosecuzione dentro la nuova logica dei piani di zona, centrata proprio sulla partecipazione. Se questa assenza pare sospetta, non mi pare difficile precisare nel Decreto sia la governance di scuola che la partecipazione dei genitori. Tanto vale precisare. Ma la logica 328 è molto importante come sfondo integratore, perché spesso la crisi dell’inclusione è stata proprio l’isolamento della scuola dai vari servizi nel territorio. Al proposito, buona è la parte sugli educatori per l’inclusione, altra novità per cui l’utilizzo della Legge 328 è importante per vincolare gli enti locali all’impegno.
La centralità dell’ICF nella lettura della persona e dei suoi bisogni
È l’elemento strutturale del Decreto che maggiormente condivido. Significa che è la funzionalità bio-psico-sociale a diventare il codice interpretativo della persona, non i suoi sintomi o gli stigmi clinici. È un passo in avanti contro il rischio di medicalizzazione: ad esempio non esiste un ragazzo down uguale ad un altro. Da qui la centralità della valutazione ICF anche per stabilire i livelli della risorse di personale e di interventi tarati per ogni condizione bio-psico-sociale. Significa, ad esempio, superare la divisione tra disabili “normali” e disabili “gravi”, data dall’art. 3 della Legge 104, con una visione più saggia dei reali bisogni inclusivi. La critica di alcuni, che così si tende a ridurre i posti di sostegno, mi pare polemica sterile. La struttura per la definizione della valutazione funzionale è una Commissione composta da clinici, da operatori sociali e da pedagogisti, che agiranno con criteri olistici attraverso l’ICF. È una scelta di integrazione culturale e scientifica, di cui vedo ovviamente la complessità attuativa, ma anche la grande novità: anche il pedagogico entra nella valutazione dei bisogni, finalmente! Alcuni criticano l’assenza dei genitori in questa fase: il tema è delicato perché riguarda la relazione tra servizi ed utenti. Nulla vieta che la Commissione raccolga anche le proposte delle famiglie (o di professionisti da loro indicati), ma la questione vera è chi sia il decisore quando si tratta di risorse. Io non ho dubbi: tocca al soggetto deontologicamente deputato all’interpretazione di ogni persona. Altrimenti si aprirebbe un terreno di “contrattazione” ambiguo. Sarebbe come contrattare con i genitori il voto in pagella di un alunno. La partecipazione corresponsabile dei genitori, invece, è centrale sul fare della scuola, quindi ad esempio sul PEI, il progetto di vita, sulla didattica, dove il genitore ha diritti di scelta.
Discontinuità e continuità del sostegno
Il tema è un tormentone, vista la troppa variabilità degli insegnanti in genere, e di quelli di sostegno in particolare. L’ignavia dei ministeriali e dei sindacati ha creato troppi interessi per gli insegnanti e troppo pochi diritti per gli alunni. Quindi io dico sì a tutte le forme che stabilizzino di più gli insegnanti. Con un’avvertenza pedagogica: la continuità nel tempo non è un valore solo per la relazione alunno-insegnante, ma anche (e spesso soprattutto) perché gli insegnanti diventino una vera comunità tra loro, condividendo esperienze significative per le quali ci vuole del tempo. Numerose ricerche rilevano il paradosso per cui, se un insegnante di sostegno è volatile di anno in anno, la scuola più facilmente si adagia a dargli una specie di delega di copertura o peggio di guardianìa. Le forme trovate nel Decreto (10 anni dopo la nomina, biennalità del sostegno a tempo determinato) sono solo alcune ipotesi.
Io tenderei anche a dare più flessibilità, nell’ambito di una gestione veramente autonoma e creativa, a tutto l’organico della scuola, tra cui anche forme miste di gestione dell’intero curricolo tra tutti i docenti.
Questi cinque punti non esauriscono l’intero panorama della complessità attuale del dibattito sul Decreto, ma a me pare siano i nodi strutturali sui quali è necessario lavorare per trovare soluzioni anche dinamiche e flessibili. Resistenze del tipo “o tutto o nulla” servono solo ad aumentare la crisi dell’inclusione, verso un declino che la positiva storia pedagogica del nostro Paese non merita. Dobbiamo riprenderci la pedagogia.