Cara scuola, ti scrivo…
Ha riempito giornali e siti, ha animato gli animi, ha acceso il dibattito. Se questo era lo scopo, la lettera dei 600 lo ha raggiunto. Se invece lo scopo era quello di indicare strategie per risolvere il problema, ha fallito di brutto.
Generica nella segnalazione del problema, ha denunciato mali tristemente noti (troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente), ha sottolineato le carenze nella scrittura (grammatica, sintassi, lessico), ha pianto per la perduta correttezza ortografica e grammaticale (…) a lungo svalutata sul piano didattico più o meno da tutti i governi.
L’obiettivo dichiarato (il raggiungimento, al termine del primo ciclo, di un sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti) è apparso vago e distante dall’analisi e dalla problematizzazione che la scuola stessa, aiutata dalle indagini nazionali e internazionali, ormai compie al suo interno da decenni.
Non basta una pedagogia linguistica del buonsenso
La lettera stupisce soprattutto nella ineffabile ingenuità delle strategie risolutive proposte, che ricalcano pari pari norme già in vigore: la necessità di traguardi intermedi imprescindibili da raggiungere (ma le Indicazioni per il curricolo e i loro ineludibili traguardi i Proff. li hanno letti?); la necessità di introdurre verifiche nazionali periodiche durante gli otto anni del primo ciclo (ma delle prove Invalsi i Proff. hanno mai sentito parlare?); la partecipazione di docenti delle medie e delle superiori rispettivamente alla verifica in uscita dalla primaria e all’esame di terza media, anche per stimolare su questi temi il confronto professionale tra insegnanti dei vari ordini di scuola (ma il curricolo verticale i Proff. sanno in che consiste?).
Ciliegina sulla torta il suggerimento al Ministro di indicare alle scuole del primo ciclo, a livello nazionale, le più importanti tipologie di esercitazioni: dettato ortografico, riassunto, comprensione del testo, conoscenza del lessico, analisi grammaticale e scrittura corsiva a mano.
Lessico povero, pensiero pigro, mondo opaco…
Ma i 600, che sono professori universitari, accetterebbero mai che lo Stato dicesse loro – e tante volte forse ce ne sarebbe davvero bisogno – cosa devono insegnare e come?
E tuttavia, dopo l’analisi critica della lettera, occorre ragionare sul fatto che in realtà le carenze dei ragazzi ci sono, e che per alcuni aspetti sono persino più gravi di quanto abbiano saputo dire i 600.
Povertà lessicale, è vero. Eppure i ragazzi apprendono agevolmente le parole del calcio, della musica, della tecnologia, delle procedure digitali, che noi stessi adulti tante volte non comprendiamo. Chi sa perché ignorano invece tante parole del vocabolario di alto uso o il lessico specifico delle discipline. Forse il problema è più grave che nella lettera dei 600: prima d’essere povertà lessicale, forse il problema è la povertà concettuale, e la povertà concettuale è mancanza di significati, è esperienza non elaborata, è mancanza di pensiero riflessivo. Sì, è responsabilità della scuola, ma non basta qualche esercitazione per colmare questa carenza.
E la difficile costruzione del discorso, la paratassi o la scorrettezza sintattica, non sono forse anch’esse carenze del pensiero, assenza di costrutti logici e di relazioni tra le cose, prima che tra le parole?
Le responsabilità della scuola
Le Indicazioni nazionali fin dal 2007 ci chiedono che gli insegnamenti disciplinari costruiscano non saperi inerti, ma processi di pensiero specifici, e persino i Nuovi Programmi per la Media del ‘79 segnalavano, in coerenza con le 10 tesi per un’educazione linguistica democratica (Giscel – De Mauro) la trasversalità dell’educazione linguistica: insegnare storia dovrebbe oggi significare costruire pensiero storico linguisticamente espresso; insegnare matematica dovrebbe significare costruire pensiero matematico linguisticamente espresso, e così via per le diverse discipline. Ma non è così nelle scuole reali. Sì, la incapacità di costruire un pensiero logico e ben organizzato è anche responsabilità della scuola.
Ed è della scuola la responsabilità di non saper promuovere una riflessione sulla lingua che consenta di distinguere una “è” con l’accento da una “e” senza accento, una “ha” verbo da una “a” preposizione; di non saper promuovere una riflessione sulla struttura della frase e sulla funzione dei suoi elementi costitutivi, di non saper scegliere modelli di analisi accessibili ai ragazzi e per loro significativi.
È della scuola la responsabilità del proporre ancora nel primo ciclo improbabili percorsi pseudoletterari, invece di promuovere il parlato e la interazione verbale per scopi diversi e in situazioni comunicative diverse, in barba agli elogi funebri indirizzati a Tullio De Mauro.
È della scuola la responsabilità di non riuscire a far amare ai bambini e ai ragazzi la lettura nelle sue diverse forme e funzioni, imprescindibile veicolo di parole e di forme di pensiero, condizione della qualità del parlato e della scrittura.
Ed è della scuola anche la responsabilità di non saper utilizzare metodologie operative e cooperative, che consentano la significazione di concetti e di parole/concetto, di relazioni e di parole di relazione; che favoriscano il dialogar di storia o di scienze, che promuovano un uso funzionale della sintassi narrativa della storia, di quella descrittiva o dimostrativa delle scienze, di quella argomentativa della matematica. Ma quale esercitazione, secondo i 600 Proff., potrebbe essere indicata per ovviare alle carenze sintattiche dei nostri alunni?
Il curricolo (verticale) di lingua
La lingua non si sviluppa solo con le esercitazioni: si sviluppa costruendo il pensiero e promuovendone l’uso e la riflessione sull’uso. E il pensiero si sviluppa leggendo e costruendo strutture di significato, e negoziandole con gli altri, ed esercitando riflessione e lingua, riflessione, lingua, metalingua. Ma la scuola non sempre riesce a fare queste cose.
Perché gli insegnanti corrono da una parte all’altra intorno a progetti e adempimenti e piattaforme e circolari e innovazioni e parole e carte, perdendo di vista le priorità e convincendosi che il progetto di educazione alla cittadinanza o di educazione ambientale o di educazione alla pace, o di una educazione qualunque tra le tante, sia più importante del curricolo di educazione linguistica.
Perché gli insegnanti finiscono col credere che sviluppare competenze sia un’altra cosa rispetto all’insegnare il verbo e il pronome, e si lanciano in interventi di grande innovazione lessicale, di grande scena e vetrina, e di poca sostanza formativa, indotti da sciocche pressioni che vengono dall’alto e da ancora più in alto.
Perché gli insegnanti arrivano in cattedra senza che nessuno abbia loro insegnato davvero che cos’è la linguistica testuale, quali sono i più funzionali modelli di analisi della frase, qual è la funzione formativa dell’insegnamento dell’italiano oggi, e come lo si insegna.
Perché il curricolo verticale e progressivo sta sulla carta, e non c’è bisogno che i 600 ci suggeriscano di inventarlo di nuovo, ma il guaio è che sta solo sulla carta, e gli apprendimenti da ottenere nei diversi segmenti non è vero che vengono decisi insieme e controllati insieme. Sta scritto, ma non è vero.
Una scuola distratta da altro
I corsi di formazione cominciano a farsi, giacché sono obbligatori, ma chi mai proporrebbe un corso sulla didattica della lingua italiana, che non fa moda e non sta nemmeno tra le criticità del RAV, e non richiede le nuove tecnologie, e forse non sta nemmeno scritto sulla 107? Quante sono nel Paese le reti, di ambito o di scopo, che stiano progettando di insegnare agli insegnanti come si insegna l’italiano?
I dirigenti scolastici hanno altro da pensare, e devono star dietro alle piattaforme e ai RAV, ai PdDM e alle reti, alle iscrizioni e alla formazione propria e dei docenti, alle rendicontazioni e alla valutazione, e mica possono perder tempo a indirizzare gli insegnanti verso i bisogni culturali dei ragazzi e del Paese intero!
Perché ai ministri interessa di più rincorrere gli standard internazionali sui temi che danno parvenza di modernità ed efficacia alla scuola nazionale, e chiamano le scuole ad adempimenti e adempimenti e adempimenti continui, veri mobbing burocratici (ma non siamo il Paese che voleva snellire le procedure?), che non solo tolgono tempo, energia e risorse emotive e intellettuali a insegnanti e dirigenti, ma costruiscono false gerarchie di valori, dirottano rispetto alle mete formative reali, distraggono dalle reali urgenze culturali e formative del Paese.
Cari 600 Proff., i problemi ci sono davvero, ma mica davvero dipendono dalla mancanza di dettati ortografici!
Verrebbe da dire: studiate, cari Proff!